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Giorno della memoria

I bimbi ebrei strappati alla guerra trovano rifugio nell’ex colonia fascista: storia di Sciesopoli

La storia è anche questo. Una serie di coincidenze hanno fatto in modo che una colonia fascista, diciassette anni dopo la sua costruzione, venisse utilizzata per ridare una speranza di futuro a chi aveva perso tutto a causa del fascismo.

Immaginate di avere pochi anni, tra i due e i dieci, che ricordi avete della vostra infanzia? Il suono di qualche canzone, la coperta di lana crespa che teneva vostra nonna sulle ginocchia, o magari vi torna alla mente il sapore di un cibo che però non mangiate da anni. Vi piacciono questi ricordi? Probabilmente sì. Probabilmente vi trovate a vostro agio a sguazzare nella vostra memoria, riportando alla mente situazioni che ora vi appaiono così lontane, ingiallite di quel colore che ha il sapore di casa, con un suono dolce, ma magiche, senza dubbio.

Ora, però, chiudete gli occhi. Cancellate dalla bocca quel sapore, togliete la coperta dalle gambe della nonna e distorcete il suono di quella filastrocca, togliete il colore al ricordo, e tagliate le fotografie della vostra infanzia. Ecco, questo è quello che c’era nella mente dei bambini che nel 1945 arrivarono a Sciesopoli. Non c’erano ricordi, ma brandelli di vita, brandelli di parenti, di felicità.

Erano orfani, odiati senza un motivo da quell’uomo che aveva messo in ginocchia quasi tutta l’Europa, Adolf Hitler. Erano colpevoli di una colpa che non era un reato, che non era sbagliata, che non era, appunto, una colpa.

I bambini di Sciesopoli avevano l’unica colpa di essere ebrei e per questo dovevano essere perseguitati. Non conoscevano per quale motivo i loro genitori erano stati uccisi, i loro fratelli maggiori rapiti, i loro nonni spariti. Erano soli in un mondo che li detestava, che li nascondeva, che li additava con disprezzo. Questo era il prezzo di essere ebrei.

Nel 1945 i treni tornavano in nord Italia; questa volta non erano colmi di falsità circa i successi dell’Italia in guerra, ma di reduci dai campi di sterminio. C’erano bambini rumeni, polacchi, tedeschi, ungheresi, con gli occhi spenti e le ossa esposte al sole tiepido di quel settembre del 1945.

Raffaele Cantoni, sfuggito ai campi di sterminio, decise insieme a Luigi Gorini, di non restare indifferente davanti a quei bambini che parevano non avere speranza di futuro. I due uomini decisero di combattere il nazi-fascismo con gli strumenti che la dittatura aveva offerto. Tra le sessanta strutture destinate all’accoglienza dei reduci dai campi di sterminio, le quali ricevettero regolarmente sovvenzioni dagli Stati Uniti, a Selvino si decise di utilizzare una vecchia struttura, eretta nel 1928, per i giovani fascisti.

La storia è anche questo. Una serie di coincidenze hanno fatto in modo che una colonia fascista, diciassette anni dopo la sua costruzione, venisse utilizzata per ridare una speranza di futuro a chi aveva perso tutto a causa del fascismo.

Nello stesso letto in cui nel 1945 dormiva un bambino ebreo, quasi vent’anni prima ci aveva dormito una Piccola Italiana o, magari, un Balilla. Gli ottocento ospiti della casa di accoglienza di Sciesopoli furono guidati da Moshe Zeiri e da un’equipe di educatori che mai, prima d’ora, si era trovata davanti ad un compito così difficile: ricostruire un’identità collettiva.

I bambini parlavano in lingue diverse, avevano ricordi diversi, ma tutti terribili e soprattutto soli e senza un passato, senza una casa, senza delle fotografie con le quali avrebbero, almeno un poco, potuto ricostruire il proprio passato. Vennero rieducati alla vita e al futuro.

Zeiri costruì un nuovo metodo pedagogico: fonda un giornalino, inventa un parlamento e una repubblica dei bambini, pensa a corsi di pittura, di musica, di teatro e di artigianato.

I bambini di Selvino giocavano spesso con i bambini di Sciesopoli, organizzavano tornei di calcio, passeggiate e facevano lunghe camminate. Erano bambini diversissimi da quelli di Selvino, ma prima di essere di qualsiasi nazione, di qualsiasi religione erano la cosa più pura del mondo: bambini e in quanto tali avevano il diritto di essere spensierati, di essere felici.

Nel 1948, però, questi bambini furono riportati alla realtà: la nascita dello stato di Israele li portò a riunirsi tutti nello stesso stato. Sarebbe stato bello conoscere i nomi dei bambini, le loro storie dopo Sciesopoli o scoprire se il progetto di Zeiri ha dato i suoi frutti e sapere chi sono diventati dopo i tre anni di convivenza, ma purtroppo non è dato saperlo. Tutti i documenti, benché già frammentari, circa l’identità di questi bambini sono stati perduti in un’alluvione degli archivi di Bergamo. Zeiri stesso ammise che a fronte di ottocento bambini di cui era necessario prendersi cura non aveva tempo da perdere con questioni burocratiche.

Da quel lontano 1948, i bambini di Sciesopoli si incontrarono di nuovo nel 1983 e nel 2015, la seconda volta con figli e nipoti.

La struttura è abbandonata dagli anni Ottanta e le piante crescono rigogliose, incuranti dei marmi pregiati utilizzati nella struttura. Se ci si avvicina a quell’enorme casa, però, si può sentire ancora la voce della speranza, il frastuono della forza e le grida di coraggio di Zeiri e dei suoi ottocento bambini. Molti uomini durante la seconda guerra mondiale hanno cambiato la storia perché hanno seguito le direttive di un folle, diventando folli pure loro.

Molti uomini durante la seconda guerra mondiale hanno cambiato la storia perchè non hanno seguito le direttive di un folle, diventando così degli eroi, uno di questi è stato Zeiri.

Korczak, pedagogista polacco che si sacrificò nel campo di sterminio di Treblinka per salvare dieci bambini disse la frase che, forse, riassume meglio di qualsiasi altro questa vicenda.

Dite: ‘È faticoso frequentare i bambini’. Avete ragione. Poi aggiungete: ‘Perché bisogna

mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli’. Ora avete torto.

Non è questo che più stanca. È piuttosto il fatto di essere obbligati ad innalzarsi fino

all’altezza dei loro sentimenti. Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli

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