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L'analisi

I paradossi della contrapposizione tra USA e Iran

Esperto di Medioriente, il professor Francesco Mazzucotelli ci propone un'approfondita analisi delle tensioni di inizio anno tra Stati Uniti e Iran, offrendo anche una doppia lettura

Ricapitolando: l’uccisione di un informatore delle truppe americane di stanza in Iraq da parte delle unità di mobilitazione popolare (una milizia sciita filo-iraniana) provoca una ritorsione da parte degli Stati Uniti contro queste ultime. Questo a sua volta provoca un assalto all’ambasciata degli Stati Uniti in Iraq. Gli USA rispondono con un attacco mirato per mezzo di un drone, assassinando il generale iraniano Qassem Soleimani, comandante del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, meglio note come pasdaran. L’Iran risponde a sua volta con un lancio di missili contro la base di Ain al-Assad, in Iraq: una reazione misurata nei tempi e nei modi, ma non puramente simbolica. Nel mezzo della risposta iraniana si trova un velivolo civile ucraino, che viene abbattuto per errore. Dopo alcuni giorni di grande tensione internazionale, le fonti governative iraniane affermano di aver risposto adeguatamente all’uccisione del generale Soleimani. Il presidente Trump, con il misurato stile che gli è proprio, scrive su Twitter più o meno che “tutto è bene ciò che si conclude bene”.

Il generale Qassem Soleimani

Al centro delle vicende di questo turbolento inizio d’anno si staglia la figura del generale Qassem Soleimani. Chi egli fosse per davvero lo hanno ben spiegato Nicola Pedde su Huffington Post e Ghoncheh Tazmini sul sito della London School of Economics.

Architetto della strategia militare iraniana in Medio Oriente, Soleimani univa in sé la peculiare interpretazione della dottrina religiosa sciita che sta alla base del pensiero khomeinista, uno spiccato patriottismo iraniano non privo di accenti nazionalisti, nonché una visione realista delle relazioni internazionali basata anche sugli strumenti dell’equilibrio di potenza e della deterrenza.

Chiamato a difendere gli interessi nazionali iraniani attraverso l’uso della forza, nel contesto dello sfaldamento dell’Iraq a ovest e dell’Afghanistan a est, sotto la minaccia di gruppi jihadisti (tra cui il cosiddetto “Stato islamico” o ISIS, da una parte, e i taliban, dall’altra) e cartelli di narcotrafficanti afghani, in un quadro di accerchiamento internazionale e di contrapposizione con Stati Uniti e Israele, Soleimani non è stato certamente uomo che si concedesse il lusso di andare troppo per il sottile.

Ma se certamente non è stato il “Che Guevara iraniano” o l’eroe della resistenza anti-imperialista, come è stato descritto dalla propaganda iraniana, allo stesso modo Soleimani non è nemmeno riducibile all’etichetta di “macellaio genocida”, usata dalla propaganda americana e israeliana nelle ore successive alla sua uccisione per mezzo di un drone nelle vicinanze dell’aeroporto di Baghdad.

Conviene ricordare che Soleimani non era un fuggitivo né un ricercato da parte delle forze americane, come erano stati Abu Bakr al-Baghdadi o Osama Bin Laden, e che la sua presenza a Baghdad il 2 gennaio era legata alla discussione di una trattativa tra iraniani e sauditi per ridurre il livello della tensione in Iraq. Militare di carriera, formatosi durante la lunga guerra tra Iran e Iraq negli anni Ottanta, Soleimani era al contempo vicino alla vecchia guarda degli esponenti politici formatisi con la rivoluzione del 1979 e nel periodo formativo della repubblica islamica, capace di esercitare un ruolo carismatico su una fascia di giovani iraniani altrimenti scettici nei confronti delle classi dirigenti, pronto anche a negoziare con gli Stati Uniti.

Benché una vulgata approssimativa attribuisca alla vecchia guardia della classe dirigente iraniana le etichette di fanatismo, conservatorismo reazionario e radicalismo religioso, non va dimenticato che quella vecchia guardia, pur conservatrice, ha poi assai frequentemente assunto una posizione di pragmatismo in materia di politica estera e tutela degli interessi nazionali, a differenza della generazione di politici formatisi nel decennio seguente e di una parte dell’apparato industriale iraniana, che vede nel mantenimento delle tensioni internazionali una ragione di nuove commesse militari e dei relativi introiti.

L’uccisione di Soleimani non toglie di mezzo il personaggio “cattivo” della trama, ma paradossalmente uno dei riferimenti noti nel panorama politico e militare iraniano, accelerando l’ascesa di elementi più radicali e più proni a una strategia del confronto con gli Stati Uniti e i loro alleati regionali. Non si tratta evidentemente di scrivere elegie funebri o di assumere in maniera acritica la narrazione iraniana. La natura complessa del personaggio è ben nota, così come la sua adesione ideologica convinta al sistema di governo della repubblica islamica. Questi elementi inducono senz’altro a sfumare i giudizi sul suo lascito. La questione dirimente è invece se l’assassinio mirato di Qassem Soleimani (e di Abu Mahdi al-Muhandis, vicecomandante delle milizie sciite irachene filo-iraniane) rappresenti un punto di svolta e che cosa il presidente Trump sperava di raggiungere con questa decisione.

L’assassinio mirato è efficace?

Le politiche israeliane di assassinio mirato sono note da almeno due decenni. Esse si basano sull’assunto che un gruppo o un’organizzazione nemica possa essere sconfitta (o che se ne possa minimizzare il potenziale offensivo) decapitandone i vertici. Anche esulando da qualsiasi considerazione di natura politica o etica, in particolare relativa agli effetti collaterali, va chiesto se questa politica si sia mai dimostrata efficace. L’eliminazione di Ahmad Yassin o di ‘Abd al-‘Aziz al-Rantisi non hanno certamente bloccato l’ascesa di Hamas nella striscia di Gaza, allo stesso modo con cui prudentemente da più parti si invitava a non celebrare prematuramente la fine di al-Qa’ida o del cosiddetto califfato dell’ISIS solo perché erano stati uccisi Osama Bin Laden e Abu Bakr al-Baghdadi. L’uccisione di figure particolarmente importanti crea scompensi politici, militari e motivazionali all’interno delle formazioni di cui sono i vertici, ma non estingue strutturalmente le ragioni che ne spiegano la nascita, il consolidamento e il radicamento in determinati contesti sociali e territoriali. Fatte tutte le dovute differenze, è lo stesso ragionamento che induce alla prudenza quando si sente dire che l’arresto di una cupola mafiosa ha risolto il problema del radicamento di una vasta e ramificata organizzazione all’interno del tessuto di un territorio.

La tecnica dell’assassinio mirato risulta particolarmente inefficace, anche solo fermandosi a un cinico calcolo dei costi e dei benefici, nei contesti culturali attraversati dalla concezione del martirio, inteso come morte in combattimento e anche come qualsiasi forma di uccisione da parte del nemico. In questi contesti, attraversati da un linguaggio simbolico molto denso e potente dal punto di vista emotivo, l’eliminazione di un esponente politico, spirituale o militare non mette in luce una debolezza organizzativa, ma al contrario la solidità delle sue intenzioni e la coerenza tra i suoi valori e le sue azioni. L’uccisione di Imad Mughniyeh nel febbraio del 2008 non ha messo in ginocchio Hezbollah, che anzi si è ristrutturato e ha giocato un ruolo militare determinante nel conflitto civile siriano; al contrario, ha rafforzato la narrazione e la linea di propaganda del “Partito di Dio”, permettendo di allungare la lunga processione dei martiri nel pantheon del partito.

Il pensiero khomeinista

Il pensiero teologico-politico khomeinista, su cui si basa il sistema politico della repubblica islamica in Iran e l’esperienza dei suoi alleati regionali come Hezbollah, si basa su una peculiare reinterpretazione dei fondamenti dell’islam sciita: la battaglia di Karbala’, in cui Husayn, nipote del profeta Muhammad, venne sconfitto dall’esercito del califfo di Damasco, che era stato accusato da Husayn di essere un tiranno usurpatore.

Secondo il pensiero khomeinista, questa battaglia, che viene ricordata ritualmente ogni anno da tutti i fedeli sciiti, rappresenta il paradigma della storia umana: ogni giorno della storia e ogni luogo del mondo è, come Karbala’, il campo di battaglia tra il bene e il male, tra la fede e l’ingiustizia, tra la resistenza e la tirannia. Così come Husayn, che sceglie di entrare in combattimento pur sapendo di essere destinato alla sconfitta e alla morte, ciascuna persona, secondo questa lettura teologica della storia, si trova di fronte alla responsabilità di scegliere da che parte stare.

L’elemento importante della storia di Karbala’, secondo questo punto di vista, non è che Husayn venga sconfitto e ucciso, ma che scelga, nonostante tutto, di scendere in campo contro il despota e l’usurpatore. Questa è la visione del mondo che Khomeini invoca contro lo shah e, in seguito, contro Saddam Hussein e gli Stati Uniti; questa è la visione del mondo in cui Qassem Soleimani credeva e che lo aveva portato, stando al suo testamento olografo, a presagire e desiderare il suo stesso martirio. In questo contesto, che pure può sembrare distante e difficile da capire, l’uccisione, anche attraverso la precisione chirurgica di un drone, non è segno di debolezza, ma la testimonianza estrema di una coerenza con la propria visione del mondo e della storia.

Un effetto paradossale

Il grande paradosso della decisione americana di assassinare Soleimani è che, proprio a causa di questa concezione del martirio, la morte del generale sia andata a rafforzare una narrazione estremamente dualista che negli ultimi tempi era andata perdendo molta della sua capacità persuasiva.

Da mesi, le piazze del Libano, dell’Iraq e dell’Iran sono attraversate da manifestazioni di giovani e meno giovani che protestano a causa del deteriorarsi delle condizioni materiali di vita: pur non rinunciando alle proprie convinzioni religiose, molti fedeli sciiti si sono uniti con convinzione alle proteste di piazza, privilegiando le questioni economiche e sociali rispetto alle grandi narrazioni teologiche sul bene e il male incarnato dal progetto “imperialista”. La portata di queste manifestazioni e la natura comprensibile di molte rivendicazioni (legate alla povertà, alla disoccupazione, alle crescenti diseguaglianze o alla cronica carenza di servizi) aveva reso assai disagevole pensare di derubricarle a una macchinazione di agenti provocatori americani o israeliani.

Come scriveva Foreign Policy alla metà di dicembre, il governo iraniano e i suoi alleati regionali erano stati criticati dalla loro stessa base di riferimento di preoccuparsi troppo dei massimi sistemi e della lotta agli Stati Uniti, e troppo poco delle condizioni concrete di vita dei diseredati e oppressi di cui dicono di essere i rappresentanti. Eliminando in modo poco cavalleresco un protagonista a suo modo carismatico delle vicende mediorientali degli ultimi dieci anni, l’amministrazione Trump ha innaffiato il campo della narrazione iraniana e della sua martirologia.

Benché si possano certamente avanzare osservazioni sulle scenografie di regime, la partecipazione ai riti funebri di Soleimani è stata massiccia e sentita, anche tra settori non necessariamente entusiasti nei confronti dell’attuale sistema politico. A conti fatti, l’assassinio di Soleimani avrebbe potuto persino essere un’opportunità favorevole per il governo iraniano, rinforzando i discorsi sul martirio e l’eroismo nella contrapposizione con il corrispettivo moderno del califfo usurpatore, se non fosse stato per il gravissimo errore commesso nella mattina dell’8 gennaio scorso, quando le guardie rivoluzionarie hanno abbattuto per errore un velivolo di linea della compagnia aerea ucraina, causando la morte di tutti i personaggi e i membri dell’equipaggio, e suscitando un’ondata di sgomento e di sdegno all’interno della stessa opinione pubblica iraniana.

Il disegno di Donald Trump e i suoi collaboratori

Anche considerando l’impatto delle proteste suscitate in Iran dall’improvvido abbattimento di un aereo civile, la scelta da parte della Casa Bianca di uccidere Soleimani appare azzardata sotto molteplici punti di vista. Donald Trump, il presidente eletto promettendo che l’America sarebbe tornata a essere grande e che non si sarebbe ulteriormente impantanata nelle sabbie mobili del Medio Oriente, ha fatto intendere più volte la sua personale “strategia di uscita” dalla regione: da una parte concentrare le truppe americane a difesa di pochi obiettivi strategicamente sensibili, dall’altra delegare il ruolo di gendarmi della stabilità regionale ai due fedeli alleati, ossia Israele e Arabia Saudita.

Se il suo disegno complessivo appare chiaro e confermato dalle colorite dichiarazioni con cui è stato annunciato il ridispiegamento di truppe a protezione dei più principali obiettivi strategici, lasciando che sul resto del territorio intervengano gli attori locali, molto più erratica è stata la realizzazione pratica. Lo stile poco convenzionale di Trump, più avvezzo alle negoziazioni commerciali che alle manovre militari, sembra cogliere di sorpresa gli apparati professionali della diplomazia e delle forze armate americane. Ma è sufficiente questa considerazione per valutare quanto accaduto nel corso delle ultime tre settimane?

Da più parti si è cercato di collegare la decisione del presidente americano a un tentativo di farsi forte agli occhi dell’opinione pubblica nel momento in cui riprende la procedura di impeachment (messa in stato d’accusa), peraltro difficile da realizzare data la maggioranza repubblicana al Senato. È poco convincente l’ipotesi che una decisione così gravida di conseguenze come quella di uccidere Soleimani possa essere legata interamente o principalmente alle dinamiche di un’elezione presidenziale che si giocherà, come e più del 2016, su argomenti domestici. Più interessante, e più inquietante, è vedere di chi Trump si sia circondato in seno all’attuale amministrazione: il vicepresidente Mike Pence e il segretario di stato (ossia ministro degli esteri) Mike Pompeo appartengono a una branca particolarmente apocalittica dell’evangelismo americano e hanno più volte un linguaggio biblico per descrivere la politica estera americana. Molte testate americane hanno evidenziato in queste ultime settimane il frequente ricorso da parte di Pompeo all’immaginario dell’Armageddon e all’idea di un grande conflitto nel Medio Oriente che farà scattare l’attesa fine dei tempi e il giudizio universale.

Le motivazioni religiose care all’evangelismo americano sono uno dei pilastri che consolidano il rapporto tra Stati Uniti e Israele, che si avvia alle terze elezioni parlamentari nel giro di un anno. I sondaggi sembrano presagire che nemmeno le votazioni previste all’inizio di marzo saranno risolutive. I due principali contendenti, Benyamin Netanyahu e l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, divergono su questioni di politica interna e sul futuro politico del primo dei due, su cui pendono accuse di corruzione, ma hanno posizioni simili riguardo alla questione palestinese e alla politica estera, incluso un atteggiamento particolarmente rigido nei confronti dell’Iran. Dopo un anno di consultazioni andate a vuoto e due elezioni inconcludenti, un conflitto con l’Iran potrebbe essere quello che ci vuole per spostare in maniera significativa il consenso interno oppure, al contrario, per sedersi al tavolo di un accordo di unità nazionale senza perdere del tutto la faccia. Infine, come scrive Lorenzo Kamel su Al Jazeera, l’eliminazione di Soleimani sembra rafforzare la posizione saudita, pur mandando un messaggio controverso sul rapporto tra regole di combattimento e difesa degli interessi nazionali.

Un’altra lettura

Esiste però anche una diversa lettura delle vicende di questo inizio d’anno, che avevano indotto a paventare lo scoppio di un conflitto regionale prima che i principali attori coinvolti tornassero rapidamente a un simulacro di normalizzazione delle relazioni internazionali.

L’Oceano Indiano occidentale è una regione che silenziosamente sta diventando il prossimo baricentro dei rapporti di forza a livello planetario. Mentre diminuisce la dipendenza petrolifera degli Stati Uniti dall’area del Golfo Persico, l’area diventa importante a causa del sistema di porti mercantili e militari lungo le rotte continentali tra l’Asia orientale e l’Africa.

India e Cina si affacciano nella regione come due potenze in ascesa, con interessi confliggenti e sistemi competitivi di alleanze regionali: la prima, per quanto guidata da un primo ministro aggressivamente islamofobo, pronta ad allearsi con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con il sostegno degli Stati Uniti; la seconda, che vede nella “Nuova via della seta” (o, in inglese, Belt and Road Initiative) un sistema di infrastrutture di collegamento tra se stessa e l’Africa, alleata con Pakistan e Iran.

In quest’ottica, l’operazione contro Soleimani sarebbe stata un segnale americano nei confronti della Cina e delle sue aspirazioni mediorientali, o quanto meno un modo di testare fino a che punto il governo cinese sia disposto a farsi coinvolgere in difesa dei suoi interlocutori locali.

Come ha scritto Jonathan Fulton per Atlantic Council, la misurata ma ferma reazione del ministro degli esteri Wáng Yì ha confermato per ora la strategia cinese per il Medio Oriente: una strategia a cui sono alieni i sovvertimenti di confini e sistemi politici, e che persegue la stabilità e la maggiore prevedibilità possibile del contesto regionale.

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