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L'intervista

“Carceri, per migliorare le condizioni dei detenuti investiamo sugli agenti”

Parla il dottor Antonio Nastasio, ex dirigente di amministrazione penitenziaria, oggi in quiescenza

Antonio Nastasio, ex dirigente superiore dell’amministrazione penitenziaria, parla della situazione delle carceri italiane e, tra le altre cose, spiega che per migliorare le condizioni dei detenuti bisognerebbe investire di più sugli agenti. 

Dottor Nastasio, ci descriva il corpo di custodia delle carceri, ossia la polizia penitenziaria…

“Oggi è un corpo di 41.000 unita previste, alle 33.000 effettive, con un indice di rapporto di un agente ogni 1,67 detenuti in Italia (3,70 in Spagna). E’ un personale con gradi e cultura diversa, con compiti e vissuto differenti, non sempre omologati in un pensiero univoco, dall’agire composito, possono portare ad avere un prodotto operativo scadente se non conflittuale. Il dare un giudizio ad un gruppo importante come quello della Polizia Penitenziaria, che assicura la custodialità a persone che hanno causato dolore e mutilazione al contesto civile, merita attenzione anche di fronte a fatti drammatici, come i diversi suicidi di stessi agenti. Vorrei commentare questi fatti che disorientano, ma impongono ad aprirsi all’analisi”.

Come percepisce questa situazione ?

“Occorre parlare della situazione degli agenti di polizia penitenziaria, così come occorre ascoltare i detenuti, a vantaggio anche della custodia, in quanto ascoltando i reclusi, le loro difficoltà esistenziali, si migliora lo stato d’animo dei detenuti e diminuiscono gli scontri con gli agenti di custodia”.

Come spiega tanto sfacelo odierno dopo 40 anni dell’Ordinamento Penitenziario da cui si pensava un netto miglioramento con il passaggio a Corpo di polizia? Come interpreta questo follow up negativo?

“Grazie della domanda che interpreto come inversamente proporzionale ad un aumento degli agenti promossi a livelli di carriera importanti, alla costituzione di settori di alta specialità e/o spostati in lavori esterni al carcere, per aumentare la visibilità. A fronte di tanti atti positivi ha corrisposto una sottovalutazione del lavoratore di Polizia Penitenziaria all’interno del carcere, specie quelli che sono direttamente a contatto coi detenuti.
Detenuti spesso raggruppati in celle comuni e con reati, etnie, religione diverse senza proporre una divisione maggiormente settoriale. Per non parlare della chiusura degli OPG, diventati ormai dei lager, riversando tutto sul carcere, anche su reparti a parte o con strutture dentro area carcere, occupando spazi verdi del carcere a danno sia dei reclusi non affetti da malattie psichiatriche che agli stessi malati criminali. Il danno peggiore è andato agli agenti che si trovano a gestire, ripeto gestire, non custodire, i reclusi senza una preparazione specifica in merito. Di fatto a contatto coi detenuti rimangono gli operatori meno preparati e meno gratificati.
Cambiano le tipologie dei detenuti ma non la preparazione dell’agente di reparto, e quando si attuano corsi “specialistici” servono spesso per i partecipanti ad avere maggior punteggio per attività meno gravose, mentre dovrebbe rimanere nel settore per cui il corso era stato attuato, e diventare uno strumento specialistico per quel tipo di detenuti rappresentati dal corso di specializzazione e non merito per spostamenti”.

Forse quanto accade ora al corpo di Polizia Penitenziaria, dai suicidi agli atti di torture, ha una sua valenza funzionale-organizzativa comune?

“I mali di questa situazione poggiano su un difetto organizzativo strutturale, perché la detenzione non organizza una vita detentiva organica e di comunicazione, anzi favorisce un uso dispersivo di tempi e spazi. I conseguenti ordini operativi non entrano nel merito del lavoro dell’agente di reparto ma spesso restano atti a favore di mera visibilità e di contenzione tout court. È una realtà che col tempo usura cose e persone, da spazio e forma all’aggressività, al diniego, alla contrapposizione, all’apatia, al dolore, alla disistima. Il tutto porta a un cattivo male di vivere.
L’agente di reparto è attualmente considerato all’ultimo gradino della scala del potere, l’ultimo della classe, la forza lavoro anonima ammassata nei reparti non diversamente da come avviene per i detenuti. Di contro è quello che assume in se tutti gli strali dell’opinione pubblica e di tutte le responsabilità di un degrado del pianeta carcere; la classe dirigente invece, sia amministrativa che politica, sembra viva in un altro pianeta avulsa ed estranea al lavoratore di Polizia Penitenziaria di reparto”.

E allora: che fare?

“Il primo atto sta che l’Amministrazione, e non solo a questa, ma anche il contesto esterno nella sua eccezione sociale e politica, ponga al primo posto l’agente di reparto e chi lavora a stretto contatto quotidiano col detenuto, riformulando la gerarchia dei servizio in base ai bisogni di questi lavoratori. Portare al primo posto l’agente di reparto significa renderlo vivibile al contesto sociale, alle denunce ma anche alle gratificazioni e riconoscimenti. Le sezioni del carcere, nucleo pulsante della vita carceraria, diventino oggetto di attenzioni, di valori, di considerazioni, affinché si attui un’osmosi del sentire e del vivere insieme e le problematiche agente/detenuto vengano condivise e i loro comportamenti e i loro atti siano tali per favorire la comunicazione, il supporto, la condivisione della vita custodialistica.
Che si attuino corsi di qualificazione specifici come il pronto soccorso, in quanto sono gli agenti di polizia penitenziaria di reparto ad intervenire in primis in casi si suicidio di detenuti o di un collega, che con gesti non appropriati possono aumentare il danno, la sedazione di risse, alterchi prima che si tramutino in atti impropri o il come l’osservare, il riferire, il rappresentare, in modo diretto fatti e cose, persone e non tramite le vie gerarchiche. L’aiuto vicendevole diventi una modalità normale e costante di operare tra persone, riconoscendo i rispettivi problemi della vita quotidiana di cui ognuno è portatore, detenuti e operatori.
Non voglio un carcere di psichiatri o di tuttologi, ma di persone solidali non divise in rigide caste e in gerarchie inossidabili di potere; ognuno veda nell’altro una essere umano di cui potersi fidare: dare considerazione, attenzione, vicinanza, consenso, ridurrà i casi di suicidio sia intra che extra carcerari, così come i comportamenti criminali all’interno del carcere”.

Come?

“Innanzitutto portando una gestione del pianeta carcere da burocratico/amministrativa a manageriale, con manager di comprovata valenza, che parlino di azienda e non di istituto, capaci di emettere atti capaci di forte impatto innovativo, dando vita a processi produttivi e azioni positive. Nel carcere deve emergere che “l’utile ” sia il vivere civile e rispettoso e l’inserimento del soggetto, temporaneamente recluso, nel contesto sociale la grande rivincita, non dimenticando che il cittadino, anche se recluso, mantiene lo status di lavoratore come indica la Costituzione nel preambolo “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

Quindi per superare quanto sta accadendo in carcere, propone azioni radicali o meglio un “altro” carcere?

“Ha detto bene. La mia vision del carcere è un “altro” carcere, cioè quello che non è stato attuato con la 354/75. In pratica è attuare quanto proposto dall’Ordinamento che divideva l’esecuzione pena in due parti: il carcere e l’esecuzione non detentiva. Ma quest’ultima non è stata organizzata come altra parte di una medesima entità, per eseguire un provvedimento restrittivo o una condanna. È rimasta come una possibilità per liberare posti in carcere: così facendo ha distrutto entrambi!
Il carcere è rimasto quello di sempre; il contenitore delle misure alternative un entità evanescente. Il carcere potrà risolve i suoi problemi, solo se si da avvio a contenitori custodialistici diversi che vadano ad inserirsi tra carcere e UEPE ( uffici dell’esecuzione penale esterna), con apporto del privato, non un apporto assistenziale ma manageriale. Il carcere solo a queste condizioni può “reingegnerizzarsi” partendo da capo e non più a pezzi o con rattoppi momentanei. “Altro” carcere vuol dire riconoscere lo sfacelo di quello attuale e rimodularlo su altre basi come ho appena accennato: Carcere come Azienda”.

Che cosa pensa della classe dirigente del settore?

“Parliamo di una classe dirigente, ora elevata a livelli di manager, che sarebbe opportuno avesse questo titolo non per decreto legge ma per scrutinio personale. Vengono rafforzati gli Uffici ispettivi centrali per valutare costantemente e con forza le direttive del Ministro, ma non fanno ciò che è maggiormente loro competenza, cioè essere organi di verifica e consulenza”.

Quindi cambiare sul serio o cambiare per lasciare tutto come era?

“Temo, in osservanza alla massima gattopardiana, la seconda ipotesi…. Penso ad un carcere “reingegnerizzato” nel suo complesso, che da struttura totale diventi contenitore da analizzare nella sua globalità e complessità, chiamando come consulenti chi lavora ora con incarichi non valutati e altro tipo di professionalità es. chi gestisce aziende. Chi attualmente lavora in carcere od al Ministero, spesso non sa esprimere una capacità/visione globale di contesto ed è non capace di formulare strategie di cambiamento. Sono per una “reingegnerizzazione funzionalista/prudoniana” e non marxiano/demolitiva, in quanto nel bene e nel male la considero vincente. In particolare la propongo agli organi politico e sindacali, sempre propensi a considerare “chi viene da fuori” come colui che abbia la risposta giusta. Diceva invece Cavour: ”solo colui che fa una cosa sa come cambiarla”. Chi esplica ogni giorno gli stessi compiti, più di ogni altro può percepire e considerare il processo riformista nella sua globalità e comprende che porre l’agente di reparto in testa alle priorità è una necessità inderogabile. Occorre non lasciarlo solo a gestire, ripeto gestire, il carcere mentre dovrebbe solo custodire. Il lavoro custodiale è un servizio da attuare con azioni proprie, positive e risolutive e non come scarica barili di situazioni fastidiose e/o pericolose.
L’operatore in divisa di reparto, seppur inserito in un’ottica trattamentale, è spesso usato solo nella eccezione custodialistica /oppressiva per evitare evasioni o risse tra detenuti. Il carcere patisce del come è costruito e reclama costruzioni/ristrutturazioni che portino ad un nuovo modo di pensare il custodire, non più ricorrendo a teorie e proposte a sfondo romantico/ afflittivo/redentive ma che facilitano azioni funzionali, come il risultato, l’ordine, l’efficienza, l’efficacia e la buona vita, non solo per i detenuti ma anche per gli operatori; finora rimaste dichiarato proposito e tali sono rimaste. Il solo portarlo all’attenzione è già cosa positiva e propositiva, di una volontà al fare e non mera desiderata”.

Se potesse parlare al Ministro che cosa direbbe?

“Si prenda altri referenti, si attorni di chi opera alla base o da chi ama il lavoro in carcere, non da chi ne trae riconoscimenti. Sia giusto, certo, ma sia anche generoso con atti di sanatoria e di vicinanza alla polizia penitenziaria alleggerendo il corpo da lacci e laccioli e da piccole e pendenti richiesta di punizione fondate più sulla ripicca e considerazioni personali che da fatti penalmente rilevanti”.

A conclusione di questa lunga conversazione che cosa propone?

“In parte ho già risposto. Credo che questa sia la domanda più difficile e più rischiosa per non cadere dalle grida manzoniane al compassionevole tutti assolti. Il mio contributo vuole essere una dichiarazione e un auspicio, che il pianeta carcere, nel suo insieme di detenzione e Misure Alternative, imbocchi la strada per essere una Azienda che operi come tale. Un carcere-azienda dove l’utile è il reintegro del reo nel contesto sociale, specie per coloro che sono privi di risorse. Allo stesso modo dare significato e valore a chi opera in sezione a partire dall’agente di reparto affinché il suo lavoro sia motivo di orgoglio personale, e nel raggiungere il posto di servizio si porti con animo propositivo e non lo viva o sia obbligato a viverlo come una salita al “golgota” e, al ritorno a casa, possa portare la soddisfazione e la considerazione di aver adempiuto a un dovere necessario ma anche utile”.

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