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On the road

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L’atmosfera bucolica della Conca Fiorita si spegne e diventa battaglia lì allo stadio

Lo stadio è il convitato di pietra di questa parte della città, nel bene e nel male.

Parlando del Monterosso e, poi, della Conca Fiorita, ci siamo girati intorno, come una falena con un neon, ma, alla fine, non possiamo evitare di parlarne: lo stadio è il convitato di pietra di questa parte della città, nel bene e nel male.

Presenza abituale, per noi, nati dopo Hiroshima, non lo doveva essere affatto per i rari abitanti della vallea, quando venne costruito e inaugurato, l’antivigilia di Natale dell’anno 1928, anno VII dell’Era fascista, su progetto dell’ingegner Luigi De Beni.

Nella costruzione dell’impianto, per i tempi piuttosto significativo, il fascismo entrò mani e piedi: non solo perché lo stadio venne dedicato al valdimagnino Mario Brumana, fascista ventunenne ucciso a Gallarate, nel 1922, in un agguato comunista, ma perché esso venne fortemente voluto da un personaggio, oggi dimenticato, che fu, al contempo, presidente dell’Atalanta e federale di Bergamo, ovvero il sindacalista Pietro Capoferri.

La scelta del sito non fu punto casuale: già vi sorgeva l’ippodromo di Santa Caterina, sulle cui fondamenta sorse il nuovo stadio. Così, nella Conca Fiorita venne creato quello che, allora, era un notevolissimo impianto polisportivo, con due tennis, una piscina e un campo da basket. Intorno al perimetro erboso, vi era anche un anello in cenere per le gare di atletica.

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Insomma, un vero polmone sportivo per gli appassionati orobici, che si recavano in periferia, oltre il ponte di Santa Caterina, per godersi l’acqua fresca, fare due tiri a canestro o tifare per la Dea.

Ecco il busillis: la periferia. Allora, viale Giulio Cesare confinava con campi e boscaglie e tra Bergamo e il suo hinterland c’era il nulla. Quello stadio, tanto bello da divenire, decenni dopo, monumento nazionale, era stato, assai saggiamente, collocato alla larga dal centro: non voglio dire in aperta campagna, ma poco ci manca.

Le città, però, si muovono, crescono, si allargano: l’osteria del Perell, dove i Milanesi andavano a gavazzare fuori porta, oggi è Piazzale Loreto. Così, pur cambiando due volte nome, in ossequio al revisionismo toponomastico, lo stadio Brumana, oggi Gewiss Stadium, si ritrovò nel bel mezzo di un quartiere, tra i più potenzialmente tranquilli della città. E lo condizionò a lungo e ancora lo condiziona, coi suoi sconsiderati frequentatori, le camionette della Polizia, l’andirivieni di scalmanati, i cori, le sassaiole e tutto il pittoresco corollario della tifoseria più becera.

La diffusione capillare delle autovetture e la proverbiale pigrizia degli automobilisti ha fatto il resto, trasformando bisettimanalmente quell’angoletto pacifico in qualcosa a metà tra un campo di battaglia e un parcheggio a gatto selvaggio.

Va da sé, dunque, che, più che cambiargli nome ogni tre per due o dotarlo di fantasmagoriche nuove curve, quello stadio, vetusto quanto glorioso, andrebbe adibito a monumento tout court, mentre le gare sportive andrebbero spostate altrove, in una zona equivalente, per antropizzazione, alla Conca Fiorita dei tempi di De Beni e Capoferri: ammesso, beninteso, che qualcosa del genere esista nei dintorni cittadini, tra edilizia scellerata e veti ambientalisti.

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Invece, il vecchio stadio rimarrà al suo posto e continuerà a ospitare quei brighella di tifosi, per la gioia dei cittadini del quartiere. Ecco, la Conca Fiorita è anche questo: non fatevi ingannare dalle atmosfere d’antan che ho evocato nella scorsa puntata. Nelle domeniche calcistiche, avrei descritto l’inferno, non il paradiso. Alla prossima.

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