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La storia

Bomba a mano per avere gli stipendi arretrati: condanna, perdono e ritorno alla vita

Un muratore della Bassa di origine albanese, papà di quattro figlie, incensurato, e quell'episodio di follia per intimorire il datore di lavoro. Dal negato rinnovo del permesso di soggiorno al ricorso al Tar, un delicato caso tra giustizia e integrazione

Una vita in salita per farsi accettare, integrarsi, costruire una nuova esistenza e poi, per un inciampo, vedersi sgretolare tutto. Il protagonista di questa storia si chiama Birzim (nome di fantasia) e all’epoca dei fatti ha 33 anni. È nato in Albania ma da quindici vive in un paese della Bassa Bergamasca, dove conduce un’esistenza tranquilla e mette su famiglia, una moglie e quattro figlie che chiama con nomi italiani. Per sbarcare il lunario lavora come muratore per un’impresa edile di Brescia: ha un contratto a tempo indeterminato, uno stipendio più che dignitoso e viene considerato un perfetto esempio d’integrazione.

Le cose, però, si complicano nella primavera del 2012, in piena crisi economica, quando al lavoro in cantiere non segue alcun pagamento. Passano uno, due, tre, quattro mesi, Birzim fa presente il problema al datore di lavoro ma la situazione non cambia. E con una moglie casalinga e quattro figlie a cui pensare, andare avanti non è facile. Nella sua testa cominciano ad affollarsi strani pensieri: vuole ciò che gli spetta, per sè e la sua famiglia.

Il 20 luglio la pazienza finisce. Birzim sale in macchina con un obiettivo preciso: andare dal suo capo, intimidirlo e fargli pagare gli arretrati. Pur di essere convincente, la combina grossa. Come lui stesso riferirà ai carabinieri, si procura una bomba a mano modello M75 funzionante: una granata a frammentazione di fabbricazione jugoslava, a tutti gli effetti un’arma da guerra. Dice di averla acquistata in stazione a Chiari, da un cittadino marocchino.

Quel giorno, però, le cose non vanno come previsto. L’auto sulla quale viaggia lo abbandona a metà strada a causa di un guasto. Determinato, Birzim prosegue a piedi, ma una pattuglia di carabinieri lo nota subito. È nervoso, dal passo incerto. Capiscono che qualcosa non va e lo fermano per un controllo. Lui non oppone resistenza e dalla tasca del giubbotto estrae la bomba, consegnandola ai militari. Nei pantaloni gli trovano un piccolo quantitativo di stupefacenti, ma le successive perquisizione in auto e in abitazione sortiscono esito negativo.

Birzim viene arrestato, comincia l’iter giudiziario: i domiciliari, il patteggiamento e la condanna a un anno e nove mesi, oltre al pagamento di una multa da 2mila e 200 euro. Ma è solo l’inizio dei suoi guai.

Dopo avere scontato la pena, il 28 giugno 2016 la Questura gli nega il rinnovo del permesso di soggiorno, con tutto ciò che ne può conseguire: l’allontanamente dalla famiglia e la perdita del lavoro che nel frattempo ha ritrovato, sempre da muratore e sempre nel bresciano. Il tutto a causa di quelle poche maledette ore di follia. Inoltre sono i giorni di massima allerta terrorismo in Europa, e una condanna per detenzione e porto illegale di munizioni – in questo caso una bomba a mano – di certo non aiuta.

Chi gli dà una mano è l’Anolf – la struttura della Cisl che si occupa di migrazione e accoglienza – che chiama in causa l’avvocato Alberto Bertuletti del foro di Bergamo. Insieme decidono di fare ricorso al Tar e tre mesi dopo ottengono la sospensione del provvedimento impugnato e la riapertura della procedura per il rilascio del permesso di soggiorno.

Le motivazioni che convincono i giudici? Le mancate mensilità di stipendio necessarie al sostentamento della famiglia e alla base del tentato gesto, i tanti anni trascorsi in Italia, la necessità di salvaguardare i legami familiari, la mancanza di precedenti penali, il comportamento di Birzim durante tutto l’iter giudiziario. Tutti elementi fino a quel momento trascurati.

“In presenza di particolari vincoli familiari e a fronte di una prolungata permanenza sul territorio nazionale” è necessaria “una valutazione di pericolosità in concreto dello straniero”, si legge nell’ordinanza del Tar. Ne consegue “la riapertura del procedimento per conseguire una più approfondita indagine sulla personalità del richiedente”. Cosa che poi in effetti avviene, quando la Questura, in autotutela, torna sui suoi passi e gli rilascia il permesso inizialmente negato.

Il 7 giugno 2017 il calvario di Birzim finisce per cessata materia del contendere. Ora ha 39 anni, un lavoro regolarmente retribuito, un nuovo permesso di soggiorno e una famiglia con la quale vivere il presente in modo sereno. Ma una cosa è certa: non potrà più sbagliare.

“Questa storia è significativa sotto vari aspetti – commenta Adriano Allieri, responsabile di Anolf Bergamo -. Dimostra come serie e concrete azioni di integrazione possano evitare che si vada a ingrossare il numero di persone che cercano di farsi giustizia da sole, o che rimangano impigliate in reti di malaffare e clandestinità; dimostra come non sia impossibile tessere reti positive tra istituzioni e volontariato, nel nostro caso sociale e sindacale; che si trovino soluzioni legali a situazioni che non vanno abbandonate a loro stesse; dimostra come si rinunci facilmente a risorse umane ed economiche, anche solo per pigrizia, sia culturale che mentale; dimostra come ci voglia veramente poco per far sì che si instauri una convivenza civile utile a far crescere la nostra coscienza e le nostre capacità, di ascolto e di insegnamento”.

Nel corso di un anno sono passate quasi 30mila persone dagli uffici dell’Anolf, che ha agevolato il rilascio di 584 permessi e carte di soggiorno, 118 ricongiungimenti familiari e 1.421 cittadinanze. “Lavorare bene sull’integrazione aumenta le probabilità che gli stranieri riescano a trovare lavoro, generando ricadute positive dal punto di vista economico, fiscale e sociale – sostiene Allieri -. Avremmo meno costi futuri (assegni di disoccupazione, minor livello di criminalità) e maggiori benefici (reddito più alto, maggiori consumi e maggiori entrate fiscali per lo Stato)”.

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