• Abbonati
La riflessione

4 novembre, fine della Grande Guerra: non dimentichiamo quei 700mila morti

Il 4 novembre di 100 anni fa l'Italia festeggiava l’unica autentica vittoria che abbia arriso alle armi italiane: oggi è solo dimostrazione di come gli Italiani abbiano perso il senso della propria memoria.

Era da poco passato mezzogiorno, del 3 novembre di cento anni fa: il generale Pietro Badoglio, plenipotenziario per l’Italia alla conferenza armistiziale di Villa Giusti, battè i pugni sul tavolino rotondo, intorno al quale erano seduti i vari ufficiali, italiani ed austroungarici, che stavano lavorando alla stipula della resa.

Weber von Webenau aveva ricevuto indicazioni contraddittorie, da Vienna e da Baden: in ogni caso, bisognava evitare una capitolazione, una resa incondizionata. Stanco del tergiversare avversario, Badoglio ruppe gli indugi e minacciò di dare l’ordine di riprendere i combattimenti: la guerra sarebbe continuata, nonostante il disfacimento delle armate austroungariche.

A questo punto, i delegati imperiali accettarono i termini dell’armistizio e firmarono il documento di resa. Le ostilità sarebbero cessate, su tutto il fronte, a partire dalle 15 dell’indomani: 4 novembre 1918.

La Grande Guerra sul fronte italiano era terminata.

Noi, oggi, ricordiamo questa data fondamentale nella nostra storia nazionale: la ricordiamo con un nome diverso, come giornata dell’unità nazionale e delle forze armate, ma, mutatis verbis, la faccenda cambia poco. Il 4 novembre 2018 segna il centesimo anniversario della vittoria: dell’unica autentica vittoria che abbia arriso alle armi italiane, dalla proclamazione del regno d’Italia, nel 1861.

Non c’è da vergognarsene, come pare che qualcuno faccia, né lasciarsi andare a sciovinismi fuori tempo massimo: c’è, però, da ricordare con affetto e con rispetto quei quasi settecentomila nostri nonni, bisnonni, trisavoli, che hanno sacrificato la propria vita per darci quell’unica vittoria. Molti di loro erano inconsapevoli delle ragioni della guerra, alcuni erano decisamente contrari, altri erano ferventi patrioti, e partirono volontari: spesso, questi ultimi, considerati un po’ dei piantagrane fanatici, venivano mandati a morire nei punti più esposti del fronte: il Calvario, il San Michele, il Carso, Oslavia.

Così, caddero Filippo Corridoni, Renato Serra, Scipio Slataper.

Tutti, in ogni caso, meritano la nostra memoria, in questa ricorrenza così evocativa, perché è nei sacrificati, nei massacrati, che la parola Patria assume un valore autentico, che travalica la mera retorica: è la terra dei nostri padri, che ricopre le ossa dei nostri antenati.

E quei quasi settecentomila morti sono, appunto, padri, fratelli, figli, fidanzati dell’Italia: sono persone comuni che si sono trovate a giocare l’alea più difficile e dolorosa, nel momento più straordinario della nostra storia.

E combatterono, quasi tutti, con valore: compirono il proprio dovere, senza, forse, nemmeno comprenderlo fino in fondo. Nelle prime, disperate ed insensate, battaglie dell’Isonzo.

Poi, nella guerra di numeri: fatta di cannoni sempre più grandi, di masse sempre più fitte, di perdite sempre più gravi.

Nel momento della paura, quando le armate di Conrad minacciarono di riversarsi nella pianura veneta dagli altipiani e in quello dell’euforia, quando venne conquistata Gorizia, e il conflitto sembrò, finalmente, smettere di ristagnare, per diventare guerra di manovra e di movimento.

E fecero spesso il proprio dovere anche a Caporetto, abbandonati dai comandanti, travolti dal caos del cedimento della seconda armata: pure combatterono, per dare agli altri il tempo di riorganizzarsi dietro il Piave, a Ragogna, a Udine, a Pozzuolo.

E le tre battaglie del Piave restituirono al Paese e ai soldati sicurezza, anzi, certezza di vittoria: fino ai giorni di Vittorio Veneto, che furono la vigilia di quell’ultimo battibecco a Villa Giusti.

Oggi, noi ricordiamo, dunque: dovremmo, meglio, ricordare.

Questo centenario, che si avvia al termine, è stato, invece, un’imbarazzante dimostrazione di come gli Italiani abbiano perso il senso della propria memoria: abbiano deciso di costruirsi un’altra identità, priva di radici.

Bergamo, in questo, è stata capofila dell’oblio: il mondo istituzionale ha glissato sul centenario, lasciando ad organizzazioni private e piccole realtà provinciali il compito di mantenere vivo il ricordo di eventi ed uomini.

Io, in questi anni, ho tenuto centinaia di conferenze, in Italia e all’estero: settimana scorsa ero a Cracovia, oggi sono appena tornato da Belluno.

E la mia città, patria di soldati valorosi e bravi, ha preferito dimenticare: questo, in qualche circostanza, mi ha fatto vergognare di essere bergamasco. Voglio sperare che, sul filo di lana di questo anniversario, così significativo per la nascita di un mito fondante della nostra nazione, qualcosa venga fatto: non per obbligo, ma per gratitudine verso quei poveri morti, cui siamo tutti, in fondo, debitori. Ma so già che non accadrà.

E, prima o poi, questo nostro recidere i nostri legami con la nostra storia, avrà conseguenze infelici. Esattamente come dopo il diboscamento vengono le alluvioni.

Iscriviti al nostro canale Whatsapp e rimani aggiornato.
Vuoi leggere BergamoNews senza pubblicità?   Abbonati!
Più informazioni
commenta

NEWSLETTER

Notizie e approfondimenti quotidiani sulla tua città.

ISCRIVITI