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Mediterraneo e dintorni

L’agosto di fuoco della lira turca

Francesco Mazzucotelli, docente all'Università degli Studi di Pavia, traccia un'analisi della situazione economica turca con tutti i loro protagonisti.

I primi sintomi di crisi erano apparsi agli inizi di luglio, pochi giorni dopo le elezioni che avevano riconfermato il presidente Erdoğan e il suo partito conservatore.

Di fronte a un tasso di inflazione schizzato sopra il 15% e al continuo deprezzamento della lira turca nei confronti del dollaro USA, la banca centrale turca annunciava l’intenzione di aumentare il tasso d’interesse, incontrando la contrarietà del presidente rieletto. Questi, nel frattempo, nominava al dicastero dell’economia e delle finanze il genero e delfino putativo Berat Albayrak, già potente ministro dell’energia e delle risorse naturale nel precedente triennio. Due le scuole di pensiero in contrapposizione tra loro.

Da una parte c’è quella di Erdoğan, che punta a contenere il tasso di interesse e a facilitare l’accesso al credito per le piccole e medie imprese della borghesia anatolica che costituiscono uno dei suoi bacini di consenso. Dall’altra parte c’è la banca centrale, preoccupata dalla debolezza della valuta e soprattutto dal rialzo dell’inflazione. Chi ha qualche anno in più sulle spalle forse si potrà ricordare di essere stato in vacanza in Turchia e di aver pagato quattro milioni e mezzo di lire per un gelato. La riforma valutaria del 2005, che ha introdotto la nuova lira togliendo di mezzo sei zeri, ha cercato di stabilizzare la situazione, ma non ha cancellato il ricordo delle turbolenze degli anni Novanta, con l’inflazione galoppante sopra l’80% e il periodico deprezzamento della lira turca che aveva portato a una massiccia dollarizzazione dell’economia locale.

Erano quelli gli anni dello scontro tra il governo della prima ministra Tansu Çiller (un’economista che si era formata a Yale) e la banca centrale riguardo all’emissione di nuovi titoli di stato per finanziare il debito pubblico. In quel caso, la crisi provocò le dimissioni del governatore della banca centrale, le principali agenzie di valutazione finanziaria declassarono i titoli turchi, lo spostamento di molti conti correnti in valuta estera e infine una massiccia fuga di capitali portarono al collasso della lira, costringendo infine il ministero del tesoro a intervenire, vendendo una parte considerevole delle proprie riserve in valuta estera. Non sorprende quindi il nervosismo di questi giorni né l’invito del presidente Erdoğan ai propri sostenitori affinché vendano i propri risparmi in dollari e in euro per sostenere la lira turca.

Con buona pace del patriottismo monetario, tuttavia, a sostenere per il momento la situazione è l’iniezione di liquidità monetaria (15 miliardi di dollari) annunciata il 15 agosto dal sovrano del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, al quale non deve essere parso vero di poter tornare al centro delle scene internazionali dopo l’isolamento imposto dall’Arabia Saudita e da altri paesi del Golfo nel giugno 2017. L’immediato accordo tra Turchia e Qatar, così come le dichiarazioni di sostegno alla Turchia da parte del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov nel suo incontro del 14 agosto col suo omologo Mevlüt Çavuşoğlu, dimostra, qualora ce ne fosse ancora il bisogno, come questa crisi economica agostana non possa essere compresa in termini puramente macroeconomici, ma debba essere inserita nel quadro del contesto politico internazionale. Le tesi di complotto internazionale circolate in alcuni ambienti del partito di governo appaiono decisamente fantasiose: i segnali di allarme relativi all’inflazione e alla debolezza della lira, così come alla natura speculativa del settore immobiliare che avrebbe rischiato di scoppiare come una bolla, si rincorrevano da mesi.

Altrettanto chiare e fondate erano state le critiche al presidente Erdoğan per avere oscurato gli esponenti del suo stesso partito che rischiavano di costituire un’alternativa interna, ma che pure erano i più esperti in materia economica, come l’ex presidente Abdullah Gül o l’ex ministro dell’economia Ali Babacan, autore del piano di austerità appoggiato dal Fondo Monetario Internazionale che aveva continuato dal 2002 il pacchetto di riforme iniziate l’anno prima da Kemal Derviş, proveniente dalla Banca Mondiale.

Da parte era stato messo anche Mehmet Şimşek, viceprimo ministro uscente e autore delle riforme tributarie che avevano favorito l’emersione dell’economia “in nero”, eppure inviso perché difensore dell’indipendenza della banca centrale. Non buoni erano infine i rapporti della presidenza con due precedenti governatori della banca centrale, Durmuş Yılmaz e Erdem Başçı, legati all’ortodossia finanziaria neoliberale.

Bisogna dire che la Turchia, pur nell’avvicendarsi dei vari governi, non può essere accusata di aver condotto una finanza allegra. Negli anni Ottanta, il primo ministro (poi presidente) Turgut Özal, insediato dai militari a capo di un governo tecnico e poi a capo di un governo civile dal 1983, attuò diligentemente le prescrizioni del Fondo Monetario Internazionale e realizzò le politiche di aggiustamento strutturale ritenute necessarie per sostituire il modello economico di sostituzione delle importazioni (cioè di produzione locale di beni di consumo) con un modello orientato alle esportazioni, puntando sul rafforzamento di alcuni comparti produttivi grazie al basso costo di lavoro e materie prime.

Negli anni Novanta, pur nell’esplosione dell’inflazione, i governi di coalizione tra i vari partiti di centrodestra, guidati da Süleyman Demirel, Mesut Yılmaz, Tansu Çiller, non misero in discussione un approccio complessivamente neoliberista e perseguirono con determinazione l’unione doganale tra Turchia e Unione Europea, entrata in vigore alla fine del 1995. Se l’adesione della Turchia alla UE si è trasformata nel tempo in una saga infinita dai confini persino surreali, l’unione doganale ha stimolato la circolazione di merci in entrata e in uscita, portando alcuni istituti bancari (BBVA, Unicredit) a entrare potentemente nella quota azionaria di alcune grandi banche turche (Garanti, Yapı Kredi).

Negli anni Duemila, infine, le politiche di rigore hanno portato la Turchia a centrare alcuni dei parametri di convergenza previsti per l’eurozona: il rapporto tra debito pubblico lordo e PIL si trova sotto la soglia del 60%, mentre il rapporto tra il disavanzo pubblico e il PIL viaggia sotto il 3%.

Perché una tempesta valutaria avviene allora proprio in questi giorni?
A dispetto delle teorie che hanno parlato di ineluttabilità, appare evidente il ruolo scatenante che ha giocato l’annuncio, da parte dell’amministrazione Trump, di imporre alcuni dazi sull’importazione di alluminio e altre materie prime dalla Turchia. Annunciata come una misura di pressione per accelerare il rilascio di un missionario americano arrestato con l’accusa di aver fomentato attività sovversive tra la popolazione curda, la decisione di Trump si lega invece nemmeno troppo velatamente alla questione iraniana, con la Turchia accusata di mantenere un legame troppo ambivalente con l’Iran e di costituire un comodo canale per aggirare le sanzioni americane. Il presidente turco ha ventilato la minaccia di un’uscita della Turchia dalla Nato, ponendosi sullo stesso livello dell’usuale spensieratezza del suo collega americano.

L’immediato intervento del Qatar nella crisi valutaria conferma invece molto seriamente che lo scontro tra Usa, Arabia Saudita, Israele e Iran, che ha finora avuto uno dei suoi teatri di scontro in Siria, si conferma la spada di Damocle che incombe sul Medio Oriente e sul Mediterraneo allargato, sia in forma militare palese sia in forma di pressioni economiche che poi rischiano di ripercuotersi a catena sull’eurozona e sugli attori economici maggiormente esposti all’instabilità regionale.

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