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L'intervento

“Bergamo e l’Italia piene di barriere per noi disabili: vado in Inghilterra, ma a Oxford…”

Sofia Brizio, studentessa universitaria che si muove con un deambulatore, ha scoperto nel Regno Unito rampe sempre presenti, porte automatiche e autobus su cui riesce a salire. Ma non tutto è perfetto, anche se certo meglio di Bergamo e del Belpaese.

L’Italia è davvero il Bel Paese. Me ne sto rendendo conto solo ora che non ci vivo più, ora che sono diventata uno dei tanti “cervelli in fuga”, come ci chiamano qui. Abbiamo storia e cultura in ogni angolo, la dieta mediterranea che il resto del mondo ci invidia, e un sistema scolastico che, checché se ne dica, prepara studenti d’eccellenza.

Il Bel Paese però diventa un po’ meno bello se non tutti possono goderne appieno. Se sei su una sedia a rotelle o utilizzi un deambulatore, come nel mio caso, vivere in Italia diventa una quotidiana corsa a ostacoli. Dai posti per disabili occupati da chi non ne ha bisogno, agli autobus privi di rampa, ai gradini senza uno scivolo che ne permetta il superamento. Eppure, ricercando per la mia tesi di laurea, ho scoperto che l’Italia non è così indietro rispetto ad altre nazioni europee, come invece spesso si pensa. Poco più di quarant’anni fa, il nostro è stato uno dei primi Paesi europei ad abolire le cosiddette “scuole speciali” e favorire l’integrazione delle persone disabili nella società. Per questo è triste constatare che al giorno d’oggi, in molte situazioni di vita quotidiana, l’inclusione resta solo sulla carta.

Ho scelto di trasferirmi nel Regno Unito spinta sì dal desiderio di ampliare i miei orizzonti e imparare bene la lingua, ma soprattutto perché a 19 anni ero stanca di dipendere dai miei genitori anche per le cose più semplici come preparare da mangiare o uscire con gli amici. Sulla base di precedenti esperienze di vacanza nel Regno Unito ero convinta che lì sarei finalmente riuscita asperimentare il piacere dell’indipendenza totale.

Non sono rimasta delusa: ho scoperto un mondo di rampe più o meno sempre presenti, porte automatiche (persino quella della mia camera da letto!), e soprattutto autobus su cui riesco a salire e addirittura viaggio gratis. La mia cucina ha il piano dei fornelli la cui altezza si regola elettronicamente in maniera tale che, se voglio, posso cucinare comodamente seduta sulla mia carrozzina. Tutto questo in un normale alloggio universitario. Sono piccoli accorgimenti che fanno una differenza immensa per la mia indipendenza. Sapere che posso girare in libertà per la città senza dover pianificare e verificare l’accessibilità del percorso con giorni d’anticipo mi dà una sensazione di completa libertà, che è scontata per chi è “normodotato” ma quasi mai garantita per chi è disabile.

Tutto ciò non è per dire che l’Italia sia totalmente invivibile e che il Regno Unito sia perfetto. Anche lì a volte la mia libertà ha dei limiti. Non prendo mai un treno da sola perché, sebbene le ferrovie britanniche garantiscano assistenza nel salire e scendere dal treno, a volte mi è capitato che chi avrebbe dovuto aiutarmi a scendere a destinazione si dimenticasse, lasciandomi ad arrangiarmi con il mio accompagnatore.

La delusione più grande poi, l’ho avuta quando sono stata accettata per un programma estivo di livello universitario a Oxford, al quale però non ho potuto partecipare perché né gli alloggi né gli edifici in cui si sarebbero svolte le lezioni sono accessibili. La risposta alla mia e-mail indignata è stata un messaggio in cui l’organizzatore, dopo essersi profuso in inutili scuse, mi ha assicurato che stanno lavorando sulla ristrutturazione degli edifici per renderli più accessibili. Per concludere, mi ha invitato a ritentare l’iscrizione il prossimo anno, senza però garantirmi che sarei sicuramente riammessa.

In qualsiasi parte del mondo ci si trovi, la scusa accampata da chi avrebbe dovuto garantire l’accessibilità è: “Ci dispiace, non ci avevamo mai pensato”. L’ho sentita a Oxford e la sento a Bergamo, quando sono costretta a chiedere una mano sui gradini della funicolare che restano una barriera insormontabile e l’unico motivo per cui non sono mai riuscita ad andare in città alta da sola; l’ho sentita tutte le volte che i miei genitori si sono spaccati la schiena portandomi su e giù da scalinate improponibili in sedia a rotelle.

Ma al giorno d’oggi è ancora accettabile che accessibilità e inclusione siano cose a cui bisogna pensare attivamente? Ciò che mi ha colpito del Regno Unito (che pure ha ancora molte carenze) è che lì pensare alle persone con disabilità viene abbastanza naturale, nella convinzione che l’accessibilità sia un diritto, non un extra. Perché una rampa o semplicemente un gradino più basso sono necessari per una persona in sedia a rotelle tanto quanto lo sono per un genitore che spinge un passeggino, o anche solo perché a tutti può capitare di rompersi una gamba. Dire a una persona che un luogo non è accessibile perché mettere una rampa o spianare il terreno rovinerebbe il patrimonio artistico, o perché semplicemente nessuno ci aveva pensato, equivale a far sentire la persona che rivendica il suo diritto all’autonomia un peso, come se stesse chiedendo troppo.

Credo che l’Italia abbia un enorme potenziale per migliorare, e devo riconoscere che negli ultimi anni sono stati fatti molti passi in avanti, ma è la mentalità che deve cambiare. C’è bisogno di cominciare a considerare i disabili come persone normali, e non come persone che devono essere grate anche solo per essere riuscite a uscire di casa. Non è accettabile che, secondo recenti statistiche, soltanto 1 disabile su 10 goda dell’autonomia completa.

Possiamo cominciare in piccolo, a Bergamo. Vorrei una Bergamo dove poter essere libera di prendere l’autobus quando ne ho voglia, senza dover pianificare una settimana prima e telefonare per assicurarmi che ci sia la rampa per salire. Vorrei che la funicolare fosse completamente accessibile perché quando frequentavo il liceo Sarpi avrei tanto voluto andare a scuola da sola, ma non ho mai potuto, e la mia speranza è che ai futuri studenti disabili questa possibilità venga data. Vorrei essere libera di girare per la città senza preoccuparmi continuamente di eventuali gradini che potrei incontrare o di dover fare una fatica enorme a causa della pavimentazione sconnessa.

A chi mi ha accusato di essere scappata dall’Italia perché era più comodo che restare per cambiare, vorrei dire che affrontare la vita in un altro paese, lontano da famiglia e amici, non è mai facile come sembra. L’Italia mi manca e vorrei tornare per aiutare a cambiare le cose. Prima però, datemi una rampa!

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