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L'analisi

Il reis vince in una Turchia divisa

Ancora una volta i primi sconfitti sono in sondaggisti. Contraddicendo gli scenari che pronosticavano un voto incerto, la necessità di un ballottaggio per le elezioni presidenziali, un nuovo parlamento senza maggioranza, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan viene rieletto al primo turno col 52.6% dei voti.

Ancora una volta i primi sconfitti sono in sondaggisti. Contraddicendo gli scenari che pronosticavano un voto incerto, la necessità di un ballottaggio per le elezioni presidenziali, un nuovo parlamento senza maggioranza, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan viene rieletto al primo turno col 52.6% dei voti.

Muharrem İnce, il suo principale avversario, si ferma al 30.6: un risultato buono, ma inferiore alle attese. Seguono a distanza il candidato curdo Selahattin Demirtaş con l’8.4 e Meral Akşener, la prima donna candidata alla presidenza, col 7.3. Nelle elezioni parlamentari, l’AKP (il Partito della giustizia e dello sviluppo, di orientamento conservatore e guidato da Erdoğan) ha ottenuto il 42.6% dei voti e 295 seggi su 600. È inutile parlare di brogli e di facezie procedurali sulla comunicazione dei dati parziali dello scrutinio: Erdoğan ha ottenuto una sonora vittoria, confermando il suo bacino elettorale anche grazie alla coalizione (Cumhur İttifakı o “Alleanza del popolo”) col partito della destra nazionalista (MHP), che ha ottenuto l’11.1% e 49 seggi, consentendo pertanto di avere una solida maggioranza parlamentare. Questa è ulteriormente legittimata da un’altissima affluenza alle urne (86.3%).

La mappa del voto conferma le geografie politiche consolidate sin dal 2007: una striscia rossa per il partito kemalista (CHP) sulla costa egea, una macchia viola in corrispondenza delle aree curde nel sudest del paese, e infine una distesa arancione (il colore dell’AKP) su tutto il resto dell’Anatolia.

È qui, nella Turchia profonda, che si radica il successo di Erdoğan. Sarebbe però un errore farne una questione di campagne “retrograde” contro città progressiste e “laiche”. L’AKP ha vinto in quasi tutte le grandi aree metropolitane (compresa la grande area di İstanbul, che da sola elegge 98 seggi). Inoltre, il motore del sistema di potere dell’AKP e del presidente Erdoğan è rappresentato dalla dinamica borghesia imprenditoriale di provincia che ha sostenuto e apprezzato lo slogan Güçlü Türkiye (“una Turchia più forte”), con cui si è presentato il piano infrastrutturale e tecnologico di grandi opere pubbliche che dovrebbero sostenere il mercato interno e dimostrare agli occhi del mondo la ritrovata grandezza internazionale di un paese che ambisce a essere perno e non solo ponte tra “Occidente” e “Oriente”.

La prosperità portata nelle zone rurali ha pure premiato la maggioranza uscente. Permangono peraltro seri dubbi sulla sostenibilità della politica monetaria e sulla natura di bolla speculativa del mercato immobiliare locale che ha trainato la crescita negli anni passati, così come sul quadro di relazioni regionali e internazionali tra NATO, Russia, Balcani, Asia Centrale e Medio Oriente.

Il presidente rieletto affronterà queste vertenze con gli estesi poteri esecutivi che la riforma costituzionale voluta dallo stesso Erdoğan e votata nel 2017 assegna al capo dello stato. Il presidente potrà nominare (e rimuovere) ministri, ufficiali militari e funzionari pubblici di alto livello, oltre a determinare le linee generali di politica interna ed estera.

Si può parlare dunque di un trionfo per il reis? Le elezioni sono sicuramente un successo personale e politico che, giova ricordarlo, va situato in un contesto di giornali silenziati, purghe nelle università e in tutte le sfere della pubblica amministrazione, nonché uno stato di emergenza che perdura dal fallito colpo di stato del 14 luglio 2016. La campagna elettorale appena terminata è stata comunque più combattuta delle precedenti.

Il fronte repubblicano creato dai principali partiti di opposizione (Millet İttifakı o “Alleanza della nazione”) si è rivelato un carrozzone alla fine poco convincente di laicisti kemalisti (CHP o Partito repubblicano del popolo) e fondamentalisti islamici (SP o Partito della felicità), di socialdemocratici e liberisti, di centrosinistra e destra “laica” (lo İyi Parti o Buon partito).

İnce, il candidato presidenziale del CHP, ha ottenuto un buon risultato, anche grazie al suo stile carismatico e “populista”, ma il suo partito è rimasto molto sotto la quota simbolica del 25% dei voti nelle elezioni parlamentari. Molti elettori hanno probabilmente disgiunto il voto, scegliendo il partito HDP, che rischiava di non raggiungere l’elevata soglia di sbarramento del 10%, al di sotto della quale non si può partecipare alla ripartizione proporzionale dei seggi. Molto sotto le aspettative è rimasta Akşener e il suo partito, uscito dall’estrema destra nazionalista dello MHP per creare un centrodestra alternativo a quello di Erdoğan. Grazie alla coalizione col CHP, il “Buon partito” di Akşener, pur appena al di sotto del 10% dei voti, ottiene 43 seggi che si sommano ai 146 dei repubblicani kemalisti.

Nonostante una campagna elettorale condotta interamente dal carcere in cui è rinchiuso sin dal novembre 2016, il candidato curdo di sinistra Selahattin Demirtaş ottiene un lusinghiero risultato personale. Il Partito democratico dei popoli (HDP), che riunisce il movimento politico curdo e la sinistra progressista e radicale, ha un ottimo risultato, con l’11.7% dei voti che gli consente di avere ben 67 seggi nel nuovo parlamento.
Erdoğan ha vinto nettamente, ma la Turchia si conferma un paese plurale e composito che ben difficilmente potrà essere gestito solo con il pugno di ferro.

*Francesco Mazzucotelli è docente universitario alla Cattolica di Milano, ha 42 anni e vive a Bergamo.

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