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Ebrei perseguitati

Guido Sacerdote: “1943, la nostra fuga e quell’uomo della polizia fascista che ci salvò”

A stilare questa toccante pagina di vita vissuta Guido Sacerdote, morto nel 2008 a 77 anni: nel 1943 era un bambino costretto con la sua famiglia di origini ebraiche a fuggire

A stilare questa toccante pagina di vita vissuta Guido Sacerdote, morto nel 2008 a 77 anni: nel 1943 era un bambino costretto con la sua famiglia di origini ebraiche a fuggire.   

Questo breve racconto non ha la pretesa di essere una cronaca dettagliata ma solo un resoconto basato sui ricordi di un uomo, allora bambino, e soprattutto l’omaggio nei confronti di un uomo che, per salvare una famiglia, non esitò a mettere in gioco la sua vita stessa.

Dobbiamo ritornare indietro nel tempo, siamo nei primi mesi del 1943; la mia famiglia, di origini ebraiche, era sfollata nel paese di San Pellegrino Terme, dove mio padre aveva conquistato una villetta: i miei genitori si recavano quotidianamente a Bergamo per attendere ai due negozi di abbigliamento che ivi gestivano. Mia sorella, mia nonna ed io rimanevamo a San Pellegrino, dove conducevamo la nostra vita.

Nei primi mesi di quell’anno la vita degli ebrei italiani era ancora tutto sommato sopportabile, pur già manifestandosi segnali preoccupanti che lasciavano presagire un futuro prossimo molto cupo. Io già da qualche tempo ero stato allontanato dalla scuola perché figlio di ebrei (l’essersi convertiti non mi aveva risparmiato questo provvedimento; ricordo ancora il giorno in cui fui allontanato dalla scuola, il Collegio vescovile Sant’Alessandro; non riuscivo a comprendere il motivo per cui potessi più frequentare la scuola come tutti gli altri bambini, miei compagni di scuola e di giochi).

Le mie giornate a San Pellegrino si svolgevano in solitudine; la comunità di San Pellegrino, ben conoscendo le origini della mia famiglia, evitava di frequentarmi ed io stesso non avevo amici:
probabilmente nella mente delle persone intrattenere rapporti e consuetudine con degli ebrei rappresentava un pericolo e un rischio.

Unica famiglia con cui avevamo rapporti era di un oppositore politico, noto avvocato di Bergamo, che probabilmente in virtù delle sue convinzioni politiche e morali aveva condiviso con tutti noi un’affettuosa amicizia (e, infatti, il figlio, mio coetaneo, trascorreva insieme a me tanti pomeriggi, così come i figli del proprietario della clinica Quarenghi di San Pellegrino: evidentemente esistevano ancora uomini che non avevano paura di sfidare il senso comune e mostruosità di certe leggi).

Tuttavia le mie giornate trascorrevano in tanta solitudine e quindi m’inventavo giochi e passatempi.

Ho sempre amato gli animali e mi piaceva giocarci insieme. Un bel giorno nella villetta accanto alla nostra si trasferisce un signore, graduato dei carabinieri, che possedeva due alani arlecchino, una coppia, di nome Dick e Zeila; fin da subito fui attratto da quei due cani enormi (non so se lo fossero realmente o se lo sono nei ricordi di un bambino). I nostri giardini erano divisi da una semplice rete di recinzione e quindi io incominciai a richiamare  l’attenzione di questi due cani, portando loro qualche boccone di carne: in breve tempo s’instaurò con Dick e Zeila un rapporto di amicizia, tant’è che un giorno il loro padrone, avendomi probabilmente notato, si avvicina, si presenta (“Mi chiamo Umberto e tu?” ) e mi invita a entrare nel suo giardino per giocare con i cani.

Da quel momento non passò giorno in cui non andassi a giocare con loro (d’altra parte cosa potevo fare? Nessun bambino voleva giocare con me): ricordo ancora la loro cuccia, talmente grande che potevo starci in piedi, nonostante la loro dimensione e aspetto erano due animali buonissimi con cui passavo tantissime ore.

Arriviamo al settembre del 1943: l’8 settembre è firmato l’armistizio e da quel giorno anche per gli ebrei italiani la situazione muta radicalmente; incominciano i rastrellamenti e gli arresti di massa. Noi stessi vivevamo in una situazione di angoscia e di perenne inquietudine: il futuro non si presentava certamente roseo.

Una sera, dopo cena, sentiamo suonare alla porta: immediatamente la paura s’ impadronì di noi: mio papà andò alla porta ad aprire. Si trovò di fronte il nostro vicino di casa, Umberto, il padrone dei cani, il quale si presentò:”Buonasera, mi chiamo Umberto Pinna, sono il vostro vicino di casa e amico di suo figlio. Sono un capitano dell’ O.V.R.A. (quindi quella dei carabinieri era solo una copertura, in realtà era un graduato della famigerata OVRA, la polizia segreta dell’Italia fascista) e ho ricevuto l’ordine di venirvi ad arrestare domattina con un plotone di tedeschi. Dovete immediatamente allontanarvi, fuggire, avete solo poche ore. Vi ho organizzato un rifugio sicuro nell’abitato di Santa Brigida; lì sarete ospiti di Don Bepo Vavassori che vi ha già preparato
dei locali dove sareste ospitati”.

Mio padre inizialmente fu totalmente confuso: un capitano dell’ OVRA che organizza la fuga di una famiglia di ebrei; tuttavia non c’era tempo da perdere, raccogliemmo poche cose e fuggimmo i miei genitori, mia sorella, mia nonna ed io. Per un qualche periodo (non ricordo quanto lungo) rimanemmo nascosti a Santa Brigida; un giorno arrivò Umberto che ci avvisò che era stata fatta una “soffiata” circa la nostra presenza e che quindi dovevamo fuggire ancora: tuttavia questa volta la fuga doveva essere definitiva, non semplicemente un nascondersi.

Mio papà aveva una sorella che risiedeva a Lugano, dove si era sposata con Luigi Finzi, mio papà negli anni aveva mandato un certo capitale alla sorella, forse in previsione di una possibile fuga futura. Fu quindi organizzato il viaggio che avrebbe dovuto condurci in Svizzera; da Santa Brigida a Varese e da lì il passaggio oltreconfine.

Umberto Pinna si occupò di organizzare il viaggio: due automobili, su una viaggiava Umberto con la mia Famiglia, sull’altra tre oppositori politici di Bergamo, fra cui un noto avvocato travestito da frate. Arrivammo a Varese non senza difficoltà e prendemmo alloggio al secondo piano di una palazzina: al primo piano, nel frattempo, Umberto si occupa di reclutare i “volontari” della Repubblica Sociale. Dopo un paio di giorni di permanenza (quasi completamente digiuni), Umberto ci annunciò che aveva organizzato il passaggio in Svizzera, ci avrebbe guidato un gruppo di contrabbandieri (i famosi spalloni) che ci avrebbero portato in un punto in cui la rete di confine era “accessibile”.

Mio padre e gli altri pagarono il prezzo pattuito per il passaggio e quindi ci mettemmo in marcia, camminammo per tutta la notte: arrivati a una casupola, ci fermammo per riposarci e a quel punto i contrabbandieri si rifiutarono di proseguire chiedendo una notevole somma aggiuntiva rispetto a quella richiesta, se non avessimo pagato, ci avrebbero denunciato al comando tedesco.
A quel punto Umberto rivelò la sua vera identità e il suo grado, minacciandoli di pesanti ritorsioni se non avessero tenuto fede agli accordi presi.

Dopo questo “incidente” la marcia proseguì; arrivati nei pressi della linea di confine, non senza difficoltà dovute anche alla presenza del’ anziana nonna, mio padre si fermò e mi spiegò bene cosa ora dovevamo fare e mi disse: “Guido, da qui in avanti corri, corri più veloce che puoi, se senti degli spari, anche se vedi cadere me o la mamma, tua sorella o la nonna, non fermarti, non voltarti, pensa solo a raggiungere la rete e a superarla”.

Fortunatamente non accadde nulla di tutto questo: tutti riuscimmo ad attraversare il confine, sani e salvi. Abbracciamo Umberto, ben consci che aveva messo a repentaglio la propria vita per aiutarci. Forse non lo avremmo più rivisto. Passammo i due anni successivi in Svizzera, non senza difficoltà e ristrettezze. Alla fine della guerra tornammo in italia per riprendere, se così si può dire, la nostra vita.

Qualche tempo dopo mio padre lesse sul giornale un titolo molto evidente. A Cagliari si stava svolgendo il processo contro il famigerato capitano dell’OVRA Umberto Pinna. Senza perdere tempo mio padre prese contatto con gli avvocati per poter recare la propria testimonianza al processo: una testimonianza importante che, unitamente ad altre attenuanti, fece sì che Umberto fosse prosciolto.

I rapporti fra lui e la mia famiglia proseguirono nel tempo, Umberto avviò un’attività di allevamento di Doberman, evidentemente la passione e l’amore per i cani erano rimasti. Un amore e una passione condivisi che hanno salvato la vita alla mia famiglia.

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