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Cinema

La recensione

Ha conquistato Venezia, ecco il Medio Oriente de “L’insulto”

Un incidente privato riaccende la faida che continua a tormentare non solo Beirut, non solo il Libano, ma tutto Medio Oriente. Si possono individuare colpevoli e innocenti?

Titolo: L’insulto
Titolo originale: L’insulte
Regia: Ziad Doueiri
Paese: Francia /Belgio / Cipro / Libano / USA
Anno: 2017
Durata:112’
Giudizio: ****

Dopo la guerra civile che l’ha straziata, Beirut è una città difficile da ricostruire, specialmente per quanto riguarda la popolazione. I libanesi cristiani con il loro passato ferito, le migliaia di profughi palestinesi e siriani, convivono in un equilibrio a dir poco precario, basta pochissimo per riaccendere sentimenti di ostilità profondamente radicati.

Toni Hanna (Adel Karam) è un meccanico sposato con una figlia in arrivo, che si galvanizza ascoltando il leader del partito di destra nazionalista e cristiana. Quando per una banalità si scontra con l’ingegnere civile palestinese Yasser Abdallah Salameh
(Kamel El Basha), reagisce con un’aggressività spropositata e finisce a insultare pesantemente lui e il suo popolo con toni razzisti e carichi d’odio. Il rifugiato reagisce con un pugno che gli rompe un paio di costole: parte così la denuncia e inizia un processo per stabilire chi abbia cominciato, chi dei due sia il colpevole.

Gradualmente diverrà sempre più chiaro come il testa a testa tra due uomini ostinati sia solo una delle tante manifestazioni superficiali di un conflitto molto più grande di loro che travalica anche i confini del paese, figlio una storia piena di ferite che sembrano impossibili da rimarginare. In città si riaccende un focolaio di guerriglia urbana, il dibattito infiamma nelle piazze e la vicenda arriva a mobilitare la politica nazionale mentre i due, increduli e spaesati, cominciano a ridimensionarsi scoprendosi l’uno nell’altro.

Il simbolo della giustizia è una bilancia, e il regista sembra utilizzare lo stesso meccanismo nel presentarci le vicende dei due contendenti. Rimbalziamo equamente tra la vita dei due, tra le loro motivazioni e le loro storie. I torti subiti dall’uno vengono restituiti all’altro, così la tragedia di un popolo che sembra in alcuni istanti imparagonabile al resto, lascia spazio alla tragedia complementare, di portata analoga.

Il film diviene un vero e proprio dramma legale, o courtroom drama, sia nella forma che nella sostanza. Nelle scene del tribunale, rappresentato un po’ all’americana, conosciamo i due avvocati. A difendere Toni un uomo con una lunga carriera alle spalle e un’eloquenza tagliente, velenosa, dalla parte del palestinese una giovane donna dai modi più pacati che punta sulla difesa dell’umanità e della dignità.

Scopriremo che i due sono padre e figlia, un aspetto che può apparire una trovata leziosa, ma che in realtà partecipa allo sviluppo di un altro importante tema presentato dal film: la componente maschilista della società e della mentalità, che permea le piazze, le case e i linguaggi. Ci vengono mostrate le compagne dei protagonisti, entrambe più giovani, entrambe donne molto
devote ai mariti di cui più volte raccolgono i pezzi. Sono portatrici di miti consigli, che però non vengono presi in considerazione. D’altro canto il loro ruolo rimane passivo e sostanzialmente domestico. La loro personalità è solo vagamente abbozzata, diversamente da quanto avviene per Toni e Yasser, accomunati da una testardaggine e impulsività quasi biologicamente maschili.

Il fatto che la componente femminile, intesa in senso simbolico e non di genere, riesca in tribunale a tener testa al simbolo del patriarca, rappresenta una sorta di apertura necessaria. L’avvocato difensore è l’elemento giovane, il tentativo di andare avanti senza alimentare l’odio, la tendenza alla conciliazione di istanze ugualmente degne di ascolto.

Il regista ci racconta una realtà attuale tentando di suggerire il bisogno di pace ma senza per questo fare semplificazioni in senso buonista. Ci mostra un problema che dilania il presente sulla base di un passato che, in quanto tale, non è modificabile e non si può risolvere immolando un capro espiatorio.

Le due fazioni opposte hanno come protagonisti esseri umani segnati da un trauma in realtà condiviso: nessuno detiene il monopolio della sofferenza, è questo il concetto fondamentale che emerge in aula.

Doueiri non ha scelto un compito semplice, costantemente a rischio di sfociare nella banalizzazione o nell’offesa, ma il risultato che raggiunge è interessante e potente. Riesce a parlare di vicende personali dalle molte sfaccettature, della politica e della questione dei diritti dei lavoratori e dei rifugiati.

Pur senza approfondire l’aspetto storico, restituisce la profondità delle sue conseguenze sulla società libanese e apre a riflessioni universali, in un’epoca storica in cui i nazionalismi riemergono quasi ovunque e molti sono i paesi in cui la convivenza tra popoli e religioni si fa tesa.

Il regista ha scritto la sceneggiatura insieme alla moglie Joelle Touma, basandosi su una vicenda personale analoga al litigio tra i protagonisti, fortunatamente riassorbitasi con meno conseguenze, ma che ha suscitato la riflessione sui temi e la voglia di svilupparli in un film. L’insulto è il suo quarto lungometraggio ed è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove l’attore Kamel El Basha ha vinto la Coppa Volpi.

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