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Il punto di valori

La lunga linea grigia della destabilizzazione occidentale

Trump, Brexit, “populismo”, sono tutti segnali che il sistema non tiene più. E sarà sempre più difficile inventarsi un nuovo leader, una nuova area politica e pubblicitaria che resista all’urto delle proteste e della rabbia di massa.

Il 15 giugno scorso il Washington Post rivela che il presidente Donald J. Trump è, o sarebbe, sotto inchiesta per aver “ostacolato la giustizia” riguardo al caso Russiagate. Reato e terminologia che corrispondono esattamente al meccanismo giuridico che portò Nixon al suo impeachment.

Operazione nata all’interno del FBI.

Quindi, Trump o se ne va senza gloria e in breve tempo, oppure potrebbe anche ritrovarsi nella direzione di tiro di qualche candidato manciuriano, come è già accaduto a Steve Scalise nel campo di baseball in Virginia. Di matti con il fucile se ne trovano sempre: per Kennedy vi fu a disposizione Lee Harvey Oswald, che se ne era andato in URSS e aveva sposato una russa.

Per Robert Kennedy bastò il giordano Sirhan Sirhan, che lo uccise “per il Medio Oriente”. Prova generale, quella di Scalise? Segnale? Non lo sapremo mai.

Il caso “Russiagate” riguarda, come è ormai a tutti noto, una probabile sequenza di operazioni di influenza russe durante le elezioni presidenziali USA del 2016. Vi è un documento, ormai pubblico, nel quale le agenzie di intelligence nordamericane ritenevano “altamente probabile” l’influsso russo a favore del candidato repubblicano. Peraltro, il testo dei Servizi USA riteneva che Putin abbia ordinato una “campagna di influence operations” al fine, piuttosto vago, di “minare la fede del popolo americano nel processo democratico”.

Una idea che vedeva, all’epoca, moto d’accordo la CIA e il FBI ma molto scettica proprio quell’Agenzia che doveva verificare gli attacchi cyber, la NSA. E cosa aveva poi fatto di tanto pericoloso il presidente russo Vladimir Putin? Sempre secondo le agenzie di Washington, aveva “screditato” la candidata democratica Hillary Clinton, non si capisce come, peraltro. Poi Putin avrebbe poi tentato di “screditare il processo democratico USA” (sic), lo abbiamo già visto, come se dovesse vendicarsi finalmente della fine dell’URSS e che la Russia attuale vede, questo processo democratico, come un pericolo mortale.

Inoltre, Putin avrebbe visto come un pesante attacco diffamatorio a lui e al suo Paese la diffusione dei dati sul doping degli atleti russi alle Olimpiadi e la pubblicazione dei Panama Papers, documenti che chiunque poteva leggere fin dall’inizio e integralmente su internet.

Le notizie sul doping non erano originate dagli USA, peraltro, e i Panama Papers vengono consegnati per la prima volta, con i loro dati su 214.000 società, alla Sueddeutsche Zeitung da parte del “Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi”, associazione che è molto arduo vedere come una emanazione delle Agenzie statunitensi. Peraltro, seguendo il faticoso ragionamento dell’intelligence di Washington, si dovrebbero ipotizzare reazioni simili a quelle di Putin anche per i dirigenti maltesi, argentini, sauditi, emiratini, francesi, brasiliani, italiani, cinesi, spagnoli, pakistani, sudafricani i cui nomi si trovano tra i suddetti Panama Papers.

E ho citato solo alcuni dei Paesi di origine dei dirigenti, politici e non, segnalati nell’archivio panamense. Quindi, il ragionamento non tiene. O tutti o nessuno.

Da notare poi che il documento dei Servizi USA ritiene le operazioni di influenza di Mosca durante la campagna presidenziale USA siano mirate a creare, se vince Trump, una possibile alleanza tra americani e russi per combattere sul serio il Daesh-Isis. Quindi, per logica conseguenza, si afferma tra le righe del documento dei Servizi nordamericani che il Daesh va benissimo e va lasciato stare, dato che opera in Medio Oriente contro gli stessi nemici, veri o presunti, degli USA.

Inoltre, le agenzie nordamericane citano i buoni risultati, ma ormai datati, che Putin ha raggiunto nelle sue trattative con alcuni leaders occidentali, come per esempio Silvio Berlusconi e l’ex-cancelliere socialdemocratico tedesco Schroeder.
Vuoi vedere che queste osservazioni hanno qualcosa a che fare con la precipitosa fuga del cavaliere di Arcore dal governo?
Inoltre, la CIA e gli altri Servizi Usa sostengono che è stato il GRU, l’intelligence militare di Mosca, ad “entrare nelle mail personali dei dirigenti del partito Democratico”.

Le azioni del GRU sarebbero state, quindi, almeno in parte, realizzate quando Trump non pensava ancora di candidarsi alla Presidenza. Strana operazione di influenza quella che favorisce un candidato alla Presidenza Usa prima che egli stessi decida di candidarsi. Ma, se è del tutto probabile che una potenza possa penetrare le e-mail di un gruppo percepito come avversario, allora come si spiega che i contenuti delle e-mail del Partito Democratico, a parte qualcosa di irrilevante, non sono mai stati utilizzati durante la campagna elettorale e, a maggior ragione, come si spiega che l’hackeraggio russo sia stato rilevato, dagli esperti di cybersecurity USA, almeno un mese prima che il fatto diventasse noto al grande pubblico?

Prima che Trump diventasse una seria minaccia per la Clinton l’hackeraggio andava bene e ora che Trump può farcela non va più bene?

Naturalmente, la notizia dell’inchiesta su Trump arriva subito dopo la testimonianza giurata alla commissione intelligence del Senato di Jeff Sessions. Una testimonianza che, con necessaria durezza, ha allontanato ogni sospetto di “collusione con i russi” da parte di Sessions. Ma la relazione della CIA dalla quale stiamo leggendo la cattiva operazione di dezinformatsja contro Trump non parla mai di relazioni dirette e specifiche di Trump e del suo staff con i russi.

Un cambiamento in corso d’opera.

E non vogliamo qui nemmeno ricordare la costante relazione tra Bush e gli ambasciatori sauditi, immediatamente dopo l’Undici Settembre. I sauditi che hanno finanziato il 9/11 si possono visitare a tutte le ore e i russi che stanno combattendo seriamente, per la prima volta, il califfato sirio-iraqeno no? Sembra, quindi, che per i Servizi USA non si debba mai e poi mai parlare con un Paese come la Federazione Russa.
E allora, si può trattare con la Cina? Insomma, ci sembra che l’analisi dei Servizi USA sia più una operazione di autopropaganda, molto malfatta, che non una attività di intelligence vera e propria. Se poi si sia trattato davvero di influence operations dei russi durante il processo elettorale presidenziale Usa, sarebbe interessante allora sapere se, sul piano tecnico, siano stati creati sistemi di manipolazione di massa, come accade anche nelle IO di matrice nordamericana, o si è, a Mosca, pensato di influenzare la sola classe dirigente.

Le IO russe più recenti, peraltro, si sono soprattutto realizzate in Crimea e in Ucraina, mentre quelle degli USA si sono concentrate sulle “rivoluzioni colorate” in Georgia o nelle “primavere arabe” in Medio Oriente.
Le information operations russe sono oggi intimamente collegate alle tecniche di “guerra ibrida”, una elaborazione moscovita della “guerra senza limiti” cinese, una guerra asimmetrica in cui “la guerra non è nemmeno più una guerra ma un insieme di azioni che riguardano simultaneamente la finanza o il terrorismo, le forze armate tradizionali e gli hacker, la guerra psicologica e quella culturale”. Ecco, se davvero ci fosse stata una operazione di Mosca per favorire davvero Trump, avremmo avuto allora una sequenza di azioni psicologiche, di defamation, di atti terroristici con false flag, “falsa bandiera”, favori finanziari o azioni unilaterali di tipo militare, insomma tutta la panoplia che si utilizza in questi casi.

Invece, vi è stato solo un probabile hackeraggio dei database del Partito Democratico USA, reso peraltro molto più facile dall’uso sconsiderato che Hillary Clinton ha fatto del suo account di posta elettronica per interessi personali e privati. Se c’è stata quindi una operazione dei Servizi russi durante la campagna elettorale statunitense, sarebbe stata fatta molto meglio e per obiettivi meno puerili di quelli descritti dalla relazione di CIA e FBI.

Peraltro, ci risulta che la stessa Agenzia di Langley sia ormai lo strumento di una parte del sistema del potere USA che gioca contro l’altra e, ancora, tendiamo a credere oggi a quello che ci riferiscono alcuni amici di Washington, i quali ci informano che la rete informativa americana ha altre Agenzie riservate e sovraordinate alla stessa CIA. Ma, infine, tutto ciò ci mostra un fenomeno politico globale dell’Occidente.

Tutte le classi dirigenti europee o americane elettive sono oggi, per un motivo o per l’altro, sotto scacco.

Trump è messo in crisi dallo “Stato Profondo” USA, che non ha tollerato la sua imprevedibile vittoria e, soprattutto, il probabile accordo futuro con Mosca.
Infatti, oggi l’establishment nordamericano vuole recuperare la guerra fredda, per evitare che si crei un nuovo polo geopolitico capace di dominare l’Eurasia. Era il punto-limite dell’analisi di Brzezinsky, che voleva una Russia resa stabilmente una piccola potenza e una Europa militarmente debole e comunque impossibilitata a riunirsi con l’asse asiatico centrale.

I russi, che hanno una lunga e brillante tradizione di autonomo pensiero strategico, sono fuoriusciti dai confini disegnati per loro dal pensatore polacco-americano; mentre gli europei, che non hanno più da tempo autonomia strategica e culturale, si sono invece cuciti addosso, dopo la fine della guerra fredda, un nuovo pigiama da carcerato. Quindi abbiamo, senza paura di utilizzare le parole giuste, un vero e proprio golpe bianco attuato dallo “Stato Profondo” di Washington contro un Presidente Usa, buono o cattivo qui non importa. Ci riguarda invece che capisca bene la lezione che gli sta impartendo lo Stato Profondo: nessuna pace con Mosca; e la continuazione delle rivoluzioni colorate o delle primavere arabe con ogni mezzo, destabilizzando nell’ordine tutto il Medio Oriente fino al “pesce più grosso”, l’Iran.

Di conseguenza, ancora un sostegno Usa dei sunniti contro gli sciiti “terroristi”, chiudendo tutti e due gli occhi sul nesso evidentissimo tra jihad della spada e sunniti-wahabiti legati agli al-Saud, chiusura della Russia ad Ovest, destabilizzazione possibile e futura della Cina utilizzando i pezzi di jihad presenti in Asia Centrale.
Anche Pechino, se estromette gli Stati Uniti dallo Hearthland asiatico, si deve preparare ad una sequenza di Influence Operations alle quali faranno seguito i terrorismi tribali e gli “interventi umanitari”.

È, questa, la ripetizione a livello globale della strategia USA nelle guerra balcaniche alla fine del XX secolo: frazionamento del territorio, manipolazione informativa e politica diretta agli alleati come alla grande massa del pubblico, inserimento in queste aree non autosufficienti di una costante instabilità politica e militare, poi uno stabile area denial per russi, cinesi e, magari, europei.
Se poi si va a vedere la posizione delle tante basi nordamericane in Asia Centrale, si nota subito che esse seguono la direzione degli oleodotti e gasdotti già attivi o in fase di costruzione.
In Europa, la Francia si sta stabilizzando dietro la nuova presidenza dell’enfant prodige Macron, ma la rappresentanza politica francese è ancora frammentata e nessuno può prevedere se il giovanissimo presidente sarà capace di gestire le tensioni che hanno portato a un passo dal potere il Front National della Le Pen.

In Gran Bretagna, la Brexit è stata letta dagli uomini dello Stato Profondo come un semplice vuoto di potere: Londra se ne andava, con qualche nostalgia imperiale, dalla UE; e si allacciava ai nuovi USA di Trump. Errore grave: se Londra sostenesse Trump, forse il tycoon ce la potrebbe perfino fare.

Lo Stato Profondo è, quindi, forse riuscito a indebolire Theresa May, per evitare che si crei un fronte Londra-Washington ad esso avverso. E se, dentro questa nuova configurazione del potere globale, vi fosse anche una nuova dottrina della strategia della tensione?

Ne parleremo presto.

Per non dire poi della destabilizzazione prolungata della Spagna, con i vari movimenti antipartito e giovanilistici, che mi ricordano tanto i ragazzi serbi di OTPOR, addestrati alla guerra psicologica nei sotterranei dell’Ambasciata USA di Budapest; o i nuovi “movimenti” italiani e orientali, che sembrano conoscere a menadito le tecniche della guerra nonviolenta di Gene Sharp, un libro che figurava tra le letture obbligate dei giovani della Fratellanza Musulmana, prima della caduta di Mubarak. Un lungo, complesso, anomalo golpe bianco quindi, che opera in tutto l’occidente.
Certo, oggi la divisione tra la popolazione non passa più dall’asse downsiano destra-sinistra.

Piuttosto, con la polarizzazione economica in corso; e la distruzione delle vecchie classi sociali sulle quali si è costituita l’identità culturale e politica europea, ci fanno pensare che la nuova divisione sociale sia invece tra Alto e Basso.

Ai vertici, una piccola superclasse, integrata da servizi di intelligence semiprivatizzati, che elabora un paradigma identitario universale in cui si destruttura ogni Sé e si propone una identità senza confini, senza tradizioni, legata al consumo e quindi mossa dall’Es, dagli istinti.
In basso, una immane classe di esseri indistinti, quelli che Ernst Juenger chiamava i “lemuri”, che devono solo obbedire ai cicli del consumo e che vive, poveramente, delle poche elargizioni cicliche dall’Alto. Gig Economy, quindi, “economia dei lavoretti”, poi il salario di cittadinanza, che rende i poveri ostaggi delle classi politiche temporaneamente al potere, poi destabilizzazione di ogni katèkhon, di ogni elemento intermedio che spinge avanti la Fine del Mondo: la famiglia, la cultura, l’Amore, le tante identità intermedie che, dal Primo Medioevo cristiano europeo hanno costruito la nostra civiltà e il nostro modo di pensare.

E arriverà, ogni tanto, l’”olio lenitivo” che, come diceva Nietzsche, cadrà sui “cinesini” che lavorano in basso.
La Cina, anche in Stuart Mill, rappresenta il simbolo del pericolo dell’omogeneizzazione eccessiva che è insita, fin dall’inizio, nel capitalismo. Tema nietzscheano, questo, che ritorna anche in una nota poesia di Von Hoffmanstahl, manche Freilich.
“Alcuni dunque devono laggiù morire/dove i duri remi toccano la nave…”

È un testo dove ognuno, gli schiavi che remano, gli uomini sul ponte, e coloro che “conoscono i territori delle stelle”, quelli che stanno in alto, ricevono e rimandano la loro ombra gli uni sugli altri.
Ma nel poeta austriaco rimaneva appunto l’ombra, quell’ombra che caratterizza un vago ma inevitabile rapporto tra l’Alto e il Basso, tra poveri e ricchi, tra potenti e “uomini del gregge”, altro termine niezscheano.

Oggi, per la prima volta, si immagina un mondo in cui la disparità tra Alti e Bassi è tale da non far presupporre nemmeno la stessa appartenenza alla comune natura umana.
E allora arriveranno i draghi, come profetizzava San Josèmaria Escrivà.
Ma sarà poi davvero possibile stabilizzare un sistema-mondo come quello che abbiamo appena descritto?

No. O una guerra regionale, pensata per essere eterna, diventa tanto grande da mettere in crisi il sistema, oppure il continuo generare di bolle e crisi si inceppa, proprio perché nessuno ci crede più, oppure ancora una rivolta culturale sottotraccia diviene così grande da porre in pericolo la narrazione mainstream. Se si crea artificialmente il vuoto nelle menti e negli animi, basta un piccolo qualcosa per riaccendere il fuoco. Intanto, fino a che non se ne andrà via questo establishment, quello che genera sia la apparente destra che la ancor più apparente sinistra, la gente gli voterà sempre contro.

Trump, Brexit, “populismo”, sono tutti segnali che il sistema non tiene più.
E sarà sempre più difficile inventarsi un nuovo leader, una nuova area politica e pubblicitaria che resista all’urto delle proteste e della rabbia di massa.
Quindi, o si ricostruirà una nuova relazione tra Alto e Basso o entrambe le aree saranno destinate, se l’una non getta l’ombra di sé sull’altra, a distruggersi.

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