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Arte

Andy Warhol alla Gamec, Bergamonews vi guida alla mostra video

Con Giacinto Di Pietrantonio che ha curato questa mostra, Bergamonews presenta una visita guidata ad un artista che ha segnato un'epoca e forse il linguaggio della nostra esistenza: Andy Warhol.

Andy Warhol a Bergamo è un evento. No, non l’artista, ma le sue opere. Che poi sono la stessa cosa: il nettare della sua esistenza. La mostra alla Gamec ha per titolo “Andy Warhol, l’opera moltiplicata” ed è a cura di Giacinto Di Pietrantonio, che per l’occasione fa da guida per i lettori di Bergamonews alla scoperta di questo allestimento che si può ammirare fino al prossimo 30 luglio.

Che Andy Warhol fosse un grande artista del Novecento, non ci sono dubbi. Ma fa un certo effetto vedere che certe sue intuizioni oggi siano patrimonio della grafica, della pittura, della fotografia fino ai nostri selfie che postiamo su Instagram. Perché Andy Warhol spaziò in più campi possibili, tracciando in ognuno di essi un solco ancora oggi riconoscibilissimo.

Al piano rialzato della Gamec si può visitare (e lo consigliamo caldamente) anche l’allestimento di Pamela Rosenkranz “Alien Culture” a cura di Sara Fumagalli e Stefano Raimondi.

La Rosenkranz ha ideato questa installazione appositamente per la Gamec e così ha creato sette light-box che riprendono la forma delle finestre di sala, un tempo cappella del monastero delle Dimesse e delle Servite. Lo spazio che un tempo ospitava la preghiera delle monache diventa così luogo di raccoglimento, astrazione. Quelle sette finestre blu che riproducono le stesse aperture che danno sul cortile dove pare ancora di sentire quel dialogo stretto tra l’uomo e qualcosa di superiore. Non è forse già questo arte? Nella sala l’artista svizzera propone tele che rileggono opere cinquecentesche, quasi una ripetizione, un rosario immerso nel color crema che riproduce lo stesso tema. Una litania, quasi che nelle ripetizione ci sia la sottolineatura di uno scandire a suo modo l’eternità.

La mostra ben introduce alle sale che, ricoperte con carta da parati color argento, ricostruiscono di fatto la factory, lo studio di Andy Warhol. E in questo specchio senza riflessi, ma che pare un tabernacolo, un silos, un caveau ecco le icone di Warhol. Sì, perché l’artista nato a Pittsburgh (Usa) da genitori slovacchi di religione cristiano ortodossa, ha sempre respirato in casa quell’adorazione alle icone di santi e di madonne con il fondo oro.

Quel modello di riprodurre, di rifarsi ai ritratti cinquecenteschi, alle icone ortodosse, si può ritrovare qui nelle Marilyn Monroe, nei Mao Tse-Tung realizzati in serie, magari con la stessa religiosa devozione. Spicca un Lenin, “un” inteso come unica opera che assurge a capolavoro. O ancora i fiori delle serigrafie, le fotografie che lo ritraggono in Vaticano in un incontro con Giovanni Paolo II, o per le vie di Napoli reduce di uno shopping che era compulsivo, utile a collezionare oggetti, materiali, souvenir che avrebbero trovato uno spazio nella sua Factory. Ci sono in mostra molte copertine della rivista Interview, le copertine dei dischi – tra queste spiccano due di Loredana Berté che frequentava la Factory ed era considerata una spaghetti Queen, perché la cantante italiana spesso si metteva ai fornelli a cucinare.

Ci sono gli stivali rossi che Andy Warhol calzava quando dipingeva nel suo studio, e una collezione di acetati in bianco e nero dedicati alle drag Queen dei locali di New York alle quali avrebbe dedicato poi  ritratti in serie. Si tratta di un omaggio a personaggi dimenticati e ai margini della società alla luce del giorno, ma celebrate come Queen nel profondo della notte. E poi quel pugno di Muhammad Ali, o Cassius Clay, simbolo di una forza che è rivincita pacifica contro ogni sopruso. Una foto ingrandita, sgranata, il tratto di una matita che rilegge il contorno, il bianco e il nero che giocano al contrasto di un Uomo, di un atleta che ha segnato un’epoca e forse un secolo.

Ecco perché questa bellissima mostra alla Gamec merita di essere vista, perché Andy Warhol è in città e come un generoso zio d’America ci porta in dono un’arte fatta in serie, eppure unica, come mai avremmo potuto immaginare di contemplare.

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