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La lettera

Papa Francesco scrive a Donald Trump: “Ricordati dei poveri e degli emarginati”

Papa Bergoglio non si spaventa né demorde e ripete: "Una persona che pensa solo a fare muri, e non ponti, non è cristiana".

“Le invio i miei cordiali auguri assicurandole che pregherò Dio l’Altissimo perché le doni sapienza e forza nell’esercizio del suo alto incarico”.

Lo scrive Papa Francesco nel messaggio a Donald Trump per il suo insediamento, il 20 gennaio 2017, come 45°presidente degli Stati Uniti, mentre nella blindatissima Washington dilagano le manifestazioni di protesta di chi non riconosce nel miliardario il presidente di tutti gli americani.

Di fronte al discorso fazioso e protezionista, Francesco gli ricorda i poveri: «In un tempo in cui la nostra famiglia umana è tormentata da gravi crisi umanitarie che richiedono risposte politiche lungimiranti e unite, prego affinché le sue decisioni siano guidate dai ricchi valori spirituali ed etici che hanno plasmato la storia del popolo americano e l’impegno della nazione per l’avanzamento della dignità umana e della libertà in tutto il mondo. Sotto la sua guida possa la statura dell’America continuare a misurarsi soprattutto per la sua preoccupazione per i poveri, gli esclusi e i bisognosi che come Lazzaro attendono di fronte alla nostra porta». Conclude invocando Dio perché «doni la sua benedizione di pace, concordia e prosperità materiale e spirituale al neo presidente e alla sua famiglia e al popolo americano».

“Io non do giudizi sulle persone e sugli uomini politici, voglio solo capire quali sono le sofferenze che il loro modo di procedere causa ai poveri e agli esclusi”.

Da novembre, quando è stato eletto Trump, Francesco è preoccupato, molto preoccupato per i poveri. Otto anni fa, dopo l’elezione di Barack Obama (presidente 2009-2017), anche la Santa Sede fu contagiata dall’entusiasmo mondiale e Benedetto XVI inviò subito un telegramma di congratulazioni, rompendo la prassi secondo cui il Vaticano si complimenta non a novembre per l’elezione ma a gennaio per l’insediamento. Ben altro clima accoglie ora l’elezione del miliardario intriso di razzismo e xenofobia, di odio verso gli immigrati, di indifferenza verso i poveri.

Prudentissimo, il segretario di Stato card. Pietro Parolin assicura «la nostra preghiera perché il Signore lo illumini e lo sostenga al servizio della sua patria e a servizio del benessere e della pace nel mondo». Si sbilanciano un po’ di più i vescovi cattolici americani, da sempre conservatori : «Siamo ansiosi di lavorare nella ricerca e promozione del bene di tutti. La nostra speranza è di poterlo fare, come Conferenza episcopale, come abbiamo fatto negli ultimi cento anni» dice a «Radio Vaticana», mons. Joseph E. Kurtz, arcivescovo di Louisville, presidente della Conferenza episcopale, auspicando che migranti e rifugiati possano «essere accolti con umanità, senza per questo sacrificare la sicurezza».

Papa Francesco fu negli Stati Uniti il 22-23 settembre 2015, parlò al Congresso (prima volta di un Papa), fu ospite di Barak Obama alla Casa Bianca e concluse l’Incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia. Nel febbraio 2016 – dopo lo storico incontro a L’Avanta con Kirill, Patriarca ortodosso di Mosca, e dopo il viaggio in Messico – Francesco non esita a dire che «chi costruisce muri non può dirsi cristiano» e condanna senza mezzi termini la violenza contro i disperati che tentano di attraversare il confine fra Ciudad Juarez e El Paso lungo il Rio Grande.

Francesco in quasi quattro anni di pontificato ha assunto la guida morale e ideale del mondo e di un Cristianesimo che si rinnova facendo suo il tema degli esclusi e degli «scartati» dalla globalizzazione finanziaria, che pensa solo di accumulare ricchezza per pochi. Il muro fra Stati Uniti e Messico, i muri costruiti in Europa da Paesi che hanno sperimentato la dittatura comunista come l’Ungheria, il «Muro» di Wall Street, cuore pulsante della finanza mondiale, sono altrettante divisioni che il Papa vorrebbe sgretolare e abbattere con la forza del Vangelo.

Donald (nome che deriva dal gaelico e significa «dominatore del mondo») Trump è, al contrario, il capo-simbolo di chi, nel precipitare della crisi, pensa a chiudere le porte della cittadella in una visione egoistica. La differenza non potrebbe essere più totale e stridente. Hillary Clinton non è mai stata amata dalle gerarchie ecclesiastiche – al di qua e al di là dell’Atlantico – come non fu mai amato il marito Bill Clinton (presidente 1993-2001): troppo evidente la cultura laica dei Clinton, troppo chiaro che il Cristianesimo non fa parte delle loro «radici culturali», a differenza di Obama, cristiano di confessione battista. Ma Trump rappresenta la negazione del Cristianesimo. Fra le urgenze pastorali di Bergoglio e l’approccio imperialista e protezionista di Trump il contrasto è lampante.

L’elezione di Trump negli Usa; quella di Mauricio Macri in Argentina; quella di Rodrigo Duterte nelle Filippine – il presidente pistolero che ha chiamato Obama «figlio di puttana» perché chiedeva conto delle morti facili nel Paese asiatico -; la dittatura dello «zar» Vladimir Putin sull’immensa Russia; la dittatura del «califfo» Recep Tayyp Erdogan in Turchia; la brutalità eretta a sistema di Kim Jong-un nella Corea del Nord; l’ascesa al potere di Michel Temer in Brasile, dopo le dimissioni di Dilma Rousseff; la polemica uscita della Gran Bretagna dall’Europa. In sostanza attorno al Pianeta si delinea una cintura di orrori fondata sulla violenza, sull’intrigo, sul potere della grande finanza.

Per fortuna ci è rimasto Francesco. Vede ridurre gli interlocutori credibili ed è alle prese con le correnti tradizionaliste, conservatrici e lefebvriane interne alla Chiesa, che hanno manifestato grande giubilo per la vittoria del miliardario. Per fortuna Bergoglio non si spaventa né demorde e ripete: «Una persona che pensa solo a fare muri, e non ponti, non è cristiana». Trump ha più volte attaccato il Pontefice «figura molto politicizzata, che non comprende i problemi che abbiamo con l’immigrazione». Per buona dose ha aggiunto: «Se mai l’Isis attaccasse il Vaticano, il Papa dovrebbe sperare che Donald Trump sia presidente». Rispetto alle esternazioni di giubilo del Patriarcato ortodosso di Mosca, la sobrietà del Vaticano è eloquente. Segnala che Santa Sede e Papa Francesco non hanno patenti di legittimità da concedere o da ottenere, e neppure interessi o «agende» da rivendicare o da concordare con l’inquilino della Casa Bianca.

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