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L'analisi

La tattica della Germania, l’indifferenza dell’Ue e l’incapacità dell’Italia

Giancarlo Elia Valori, Honorable de l’Académie des Sciences de l’Institut de France,

Nessuno sta davvero bene nella camera a gas europea, ma qualcuno, parafrasando George Orwell, ci sta meglio degli altri.

Si tratta della Germania, come si può facilmente immaginare. All’inizio di quest’anno, la produzione industriale tedesca era caduta fino allo 0% di aumento annuo e la fiducia dei consumatori era a livelli analoghi. Ma, come è ormai ben noto, Berlino ha distrutto la nostra industria manifatturiera, dall’inizio della fase Euro fino ad oggi, e si sta sostituendo a noi nei grandi mercati globali: la Cina, la Russia (a parte le folli sanzioni per l’Ucraina, una operazione peraltro più legata alle azioni USA e NATO che a quelle russe).

Quindi, la crisi della produzione tedesca è stata breve e riguardava la compressione relativa del mercato cinese, e il ciclo negativo, però ben più serio, di quella Usa. Ma quando si rubano i mercati agli altri tutto si fa facile e rapido. La storia ebbe inizio con il cancelliere socialdemocratico Schroeder, poco prima che cominciasse la fase della moneta unica EU, quando egli gestì, anche grazie alla fase ancora in atto del “riassorbimento” della DDR, l’abbassamento forzoso del valore del Marco e dei costi di produzione delle imprese, già al di sotto della prevista linea di galleggiamento dell’Euro, per far divenire la “grande fabbrica tedesca” già competitiva addirittura prima dell’introduzione della moneta unica.

L’Euro, peraltro, ha certo permesso allo Stato italiano, che non si era affatto preparato alla moneta unica, di ricostruire la propria storia debitoria, che era alla fine con una vicina prospettiva “argentina”. Ma la moneta unica, inevitabilmente troppo “alta”, ha distrutto, ovvero dimezzato, il valore di acquisto di salari e stipendi e raddoppiato, se non di più, sia i costi di produzione che i prezzi al consumo.

E‘ stata in Italia una deflazione dell’80% che è durata sei mesi, pensate gli effetti sociali del fenomeno. Nemmeno dopo la Seconda Guerra Mondiale persa, il che è tutto dire. Abbiamo subito quindi una costrizione all’export che ci ha sì fatto guadagnare qualche posizione nel mercato-mondo ma ha distrutto, grazie anche ad una classe politica usuraria e assente, la grande industria di Stato, svenduta una tantum, ma comunque con “dazioni” ugualmente una tantum alle vecchie e nuove forze politiche.

Inoltre, il passaggio verso una moneta stupidamente “alta” ci ha ulteriormente distrutto il sistema bancario, ormai gregario rispetto alle grandi aree di liquidità che si creavano sia in UE che nel resto del globo. L’Italia, infatti è rimasta in recessione per almeno cinque degli scorsi otto anni.

Il nostro PIL reale è, ancora oggi, inferiore rispetto a quello del 1999, il debito sovrano italiano è cresciuto del 133% sul PIL, sempre dal 1999 e inoltre fin dall’introduzione dell’Euro la produttività media nazionale è stabilmente calata. Ma cosa c’entra la Germania? C’entra, c’entra.

Bruxelles non sa infatti gestire, anzi, rimane silente nei confronti del colossale surplus tedesco delle partite correnti, oltre l’8%, una cifra che nessun trattato UE consente e che peraltro finanzia l’attuale non lieve crescita (4,5% in media) dei salari e degli stipendi in Germania, oltre a rifinanziare la domanda interna locale, vero motore della crescita ora che tutti gli export languono.
Fin dall’inizio della crisi del 2006 poi, generata dal ricarico della “bolla finanziaria” USA sui mercati monetari e bancari europei, la Germania ha forzato lentamente ma sicuramente gli altri Paesi UE ad esssere più fiscalmente “corretti”.

Ovvero, ad aumentare le tasse interne per poter sostenere il minor acquisto previsto dei titoli di Stato e per fare “cassa” qualora i rinnovi dei titoli a scadenza non fossero numerosi.
Ma, lo sanno anche al primo anno di Economia, se aumenta la fiscalità, diminuiscono i consumi interni e, se diminuisce il mercato interno, deve esserci una quota equivalente di esportazioni che compensa la perdita.

Ma se il valore esterno dell’Euro cambia per ogni Paese dell’Area, i nostri concorrenti UE con Euro a valore esterno più forte e stabile ci porteranno via i mercati anche a prezzi equivalenti.
Bene, ma questo ha voluto dire distruggere, di fatto, le imprese italiane, spagnole, ma anche talvolta francesi, per favorire sia la Germania che l’area di espansione industriale tedesca oltre la vecchia cortina di ferro.

Il lavoro tedesco fuori dai confini germanici ha sostenuto fin dall’inizio la copertura dei mercati globali, a prezzi fortemente concorrenziali, mentre l’Italia e le altre zone che non si erano cinicamente preparate alla geoeconomia dell’Euro schiantavano sotto il peso dei costi insostenibili delle loro esportazioni e della concorrenza internazionale.

Mentre il Presidente Ciampi visitava la Grande Muraglia Cinese, il cancelliere Schroeder atterra rapidamente a Pechino e firma, in una sola giornata, tutti i contratti che riguardano la notevolissima espansione in Cina del gruppo Volkswagen.
Fu, peraltro, proprio questo lo stesso paradigma che la Germania di Bonn usò contro la DDR, ridotta ad un paese da Anschlűss sia per evitare la concorrenza delle imprese della Germania comunista, che non erano poi male, sia per utilizzare, a costo ancora più basso, la manodopera che si “liberava” da quelle aree.

Il modello con cui Bonn ha comprato, con i soldi nostri e talvolta perfino della stessa DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, è stato quindi replicato per il resto d’Europa. Detto tra parentesi, le norme “moralistiche” sul rigore, che hanno trovato molti inesperti cantori (ma noi diremmo anche agenti di influenza) non si applicavano allora nemmeno alla Germania che, nella fase del “rigore”, fa investimenti triennali per il 5,2% del PIL.

Anche sul piano geopolitico, la correlazione strategica tra Berlino e Washington ha anche un senso economico: la pressione sanzionistica sulla Federazione Russa, rea di riprendersi ciò che è suo in Crimea e in parte dell’Ucraina, mette in crisi le economie più interrelate proprio con Mosca, fra cui la nostra, e allora una crisi si aggiunge all’altra. L’interesse degli USA, qui, è chiarissimo: tanto più si frantuma il tessuto economico e l’interesse unitario europeo, tanto più si garantisce e si espande l’area del Dollaro e, comunque, la zona di espansione commerciale e, ancor di più, finanziaria degli Stati Uniti.

Tanto più gli USA rientrano in Europa, poi, tanto più aumenta il potere bilaterale di Berlino su Washington e, proporzionalmente, diminuisce quello degli altri poli della UE, ridotti ormai, dopo le famigerate “primavere arabe”, a una lotta interna (Italia vs. Francia per la Libia, per esempio) o a una “azione comune”, spesso del tutto inefficace, con gli USA che comunque ritengono di dover lasciare il Medio Oriente, avendolo follemente incendiato.

Un dirigente della CIA, in un recente libro, ha confessato candidamente che “noi speravamo che la rivolta democratica distruggesse Al Qaeda”; e si è visto con quali risultati tragici e incontrollabili.
Tralasciamo poi qui il caso della guerra in Siria e dei suoi effetti sugli equilibri del welfare EU, che diverrà totalmente insostenibile tra poco e che porrà i Paesi meno previdenti della UE in condizioni tragiche mentre, invece, creerà occasioni di lucrosi investimenti per le banche e le assicurazioni private del Nord Europa e degli USA.

Dopo le normative restrittive della EU sui bilanci pubblici dei Paesi membri, con la normativa chiamata nel 2011 “two pack”, la Francia si è posta, almeno in piccola parte, contro il processo di germanizzazione finanziaria (e poi politica) della UE, mentre gli Italiani hanno continuato ad utilizzare la leva del debito e l’ occasione fortunata fornita da Mario Draghi, Governatore della BCE, con le sue azioni di riacquisto, ma sul mercato secondario, dell’eccesso di titoli di Stato dei Paesi come l’Italia.
Ma non durerà.

I casi sono due: o viene applicata la sequenza dei “sacrifici” e dei vincoli di bilancio, e lasciamo stare la storia che gli Stati spendono male, perché tutti gli Stati lo fanno, e quindi l’Italia non avrà più né un mercato interno per sostenere il suo output industriale, perché peraltro ha una produttività bassa del lavoro, oppure dovrà fare debito sui mercati finanziari e infine crollare sotto gli interessi generati da quel debito.

Naturalmente, ci aiuteranno a morire, si badi bene.

Poi, compreranno le nostre imprese a costo minimo, per integrarle nelle loro reti europee e globali, con la manodopera nazionale che sarà una variabile, non una costante, del calcolo d’impresa e con gli utili che se ne andranno oltre confine. Nel 2013, l’Italia era già seconda nell’elenco dei M&A, Merger and Acquisition delle imprese tedesche, guarda caso proprio durante la crisi, ed oggi siamo ad oltre il 30% delle aziende italiane ormai di proprietà non nazionale già vendute ai tedeschi.

Solo nel 2013, per esempio, ci sono stati ben 23 deals di PMI tedesche che hanno acquisito imprese italiane, su un totale di 171 vendite di PMI nazionali tra il 2013 e l’anno successivo.
Data la complessità di queste operazioni, non è evidentemente possibile fare ipotesi sulle attività ancora in fieri. Ecco: mettere in crisi un Paese, poi comprarlo a prezzi ribassati.

Una strategia che è stata predisposta da molto tempo e che noi, per ferale incapacità della nostra classe politica, non abbiamo predisposta in tempo, ovvero prima dell’entrata in vigore dell’Euro.
Cosa fare? Uscire dalla moneta unica non serve.

Ma operare liberamente sui grandi mercati globali, dove noi possiamo ancora fare concorrenza ai nostri “alleati” europei, questo lo si deve fare subito e con tecniche dure e decise.
E accettare operazioni estero su estero non in Euro, come con la Cina e la Federazione Russa. Ecco a cosa servirebbe una buona intelligence e una classe politica non composta da soli parvenu, come oggi.

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