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Economia

Ubi e Italcementi, quando la globalizzazione bussa a casa nostra

La prima assemblea di Ubi Banca in versione Spa e con la vendita di Italcementi ad Heidelberg Cement Bergamo scopre gli effetti della globalizzazione economica.

C’è un prima e un dopo nell’economia bergamasca che ha il suo punto di passaggio nel 2015.

Due casi particolari su tutti: con la riforma delle banche popolari da società cooperative a società per azioni, Ubi Banca scopre di non essere più un gruppo bancario diviso tra Bergamo e Brescia. La prova dimostrativa, se mai ce ne fosse stato bisogno, è stata l’assemblea degli azionisti che si è svolta sabato 2 aprile 2016 alla Fiera di Bergamo, quando i fondi hanno dimostrato di possedere la maggioranza della banca del territorio orobico e che proprio ai piedi di Città Alta ha il suo cuore.

Fondi sparsi nelle borse di tutto il mondo hanno investito in quella Banca Popolare che era, e rimane, di riferimento per le famiglie e le imprese bergamasche. Un gioiellino su cui hanno puntato gli occhi in molti. La Popolare di una provincia, seppure ricca come Bergamo, è diventata nel tempo un gruppo nazionale su cui investire e far rendere i propri risparmi.

Per alcuni è una sconfitta della banca del territorio, ma forse la storia dimostrerà che i timori attuali della cronaca economica sono infondati.

Chi ha investito ha creduto e crede in Ubi Banca, vuole che rimanga quella banca solida che ha affrontato sfide e che con la politica del passo dopo passo ha saputo diventare un colosso bancario.

Con la vendita di Italcementi a Heidelberg Cement avviene la stessa cosa.

Dopo la fusione nel 2014 dei due colossi (e fino ad allora rivali) europei della svizzera Holcim e la francese Lafarge – oggi LafargeHolcim – era chiaro a tutti che Italcementi non avrebbe potuto restare a guardare. Doveva giocare la propria partita a livello globale. Le scelte erano tre: acquistare, fondersi o vendere.

La vendita a HeidelbergCement ha spiazzato tutti. Ma c’è da fare un volo d’uccello – come si fa in architettura per osservare il tutto da un’altra prospettiva – sulla situazione generale in cui si trovava Italcementi in quel momento.

Per acquistare serve denaro, capitali che tutte le banche italiane non avrebbero potuto offrire alla famiglia Pesenti per partire lancia in resta alla conquista di nuovi mercati. I gruppi bancari italiani erano e sono occupati alla loro trasformazione in Spa e a correre ai ripari dopo le batoste subite dalla crisi economica.

Sembra un passaggio inutile, ma non si deve dimenticare che la trasformazione di dieci banche da società cooperative a società per azioni non si è ancora completata dopo 14 mesi dal decreto del Governo Renzi.

Le uniche due banche sono Ubi e la Popolare di Vicenza. Le altre otto temporeggiano perché alle prese con l’equilibrio delle poltrone che non torna.

E questo dimostra la grave crisi di un Paese come l’Italia che non sa cambiare, adattarsi, evolvere. Eppure il tessuto industriale per buona parte è sano.

Italcementi non ha svenduto. Lo dimostra l’andamento del titolo in Borsa. I tedeschi che sono scesi a Bergamo hanno visto lo scrigno della ricerca che è i.lab di Italcementi e che può fruttare molti denari con i nuovi prodotti e brevetti allo studio.

Sono trascorsi otto mesi dalla vendita di Italcementi. Se i Pesenti avessero aspettato, la propria azienda avrebbe perso competitività, spazi di crescita, prospettive.

E allora quelle parole pronunciate a mezzo stampa dal patriarca Giampiero Pesenti che all’annuncio della cessione dell’azienda disse: “un imprenditore sa che l’importante è garantire lo sviluppo futuro dell’attività più che arroccarsi nella continuità del controllo dell’azienda” sembrano profetiche e dimostrano la saggezza del capitano d’industria.

Lo sviluppo sta altrove, perché lontano da questo Paese in cui i tempi della burocrazia, dei cambiamenti, delle riforme, del credito sono molto più lunghi e inadeguati ad un’economia che corre.

Qui le imprese corrono, a dire il vero a volte fanno salti mortali, ma certe procedure non cambiano mai. Fermi alle beghe di rione.

Nella danza è fondamentale tenere il tempo. Ma il sistema Italia balla un valzer lento quando l’orchestra globale suona un rock.

In questa pista da ballo che è il mercato, Bergamo ha perso la propria banca di riferimento, nel senso che si è sganciata dal territorio ed è proiettata a sfide più grandi e sicuramente competitive.

La stessa dinamica è avvenuta per Italcementi. Non ci sono state le condizioni, che doveva offrire un sistema Paese, per permettere al gruppo di via Camozzi di fare un’acquisizione come quella della Ciments Français nel 1992.

Sul campo restano centinaia di posti di lavoro. Ed è questo il tema di oggi. Oggi che le dinamiche della globalizzazione economica hanno tempi più veloci e spietati, tempi  che non aspettano un Paese che non sa scuotersi da vecchie logiche, che non sa e non vuole cambiare e si gongola nel rimandare a domani ciò che era necessario ieri.

Sarebbe facile – e fin troppo comodo – dare colpe, ma qui non servono responsabilità. E ognuno si deve carico delle proprie.

Carlo Pesenti venerdì scorso ha affermato che Italcementi è impegnata per ricollocare i propri dipendenti che nel piano Heidelberg vengono conteggiati come esuberi.
Si tratta di persone, lavoratori, con un’ottima preparazione e una professionalità riconosciuta ovunque. Sono il valore aggiunto che ha fatto grande Italcementi. Le aziende bergamasche si impegnino ad aprire loro una possibilità.

Heidelberg ha già deciso di portare tutta la sede di Italcementi all’i.lab al Kilometro Rosso. Sarebbe bello immaginare che la vasta area che rientra nel quadrilatero della sede Italcementi tra via Camozzi e via Madonna della Neve, possa diventare un progetto innovativo e produttivo che generi posti di lavoro.

Negli ultimi tempi si sta parlando sempre più di industria 4.0, ovvero il futuro delle nostre imprese esige un patto collaborativo tra i diversi soggetti che fanno parte dell’azienda, sindacati e scuole comprese.

Questi due casi, Ubi Banca e Italcementi, che mettono Bergamo alla prova più dura della globalizzazione che bussa a casa nostra, siano davvero il banco di prova per dimostrare che la terra orobica è in grado di fare rete per affrontare questa nuova sfida. Solamente così si affronta il presente e si immagina il futuro.

Senza accuse reciproche, non c’è altro tempo da perdere, ma solamente energie e forze da mettere in campo.

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