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L'intervista

“Io, emofiliaco grave alla Maratona di New York ho vinto la battaglia”

Enrico Mazza, bergamasco classe 1992, domenica 1 novembre era dietro al nastro di partenza della Maratona di New York insieme ad altre 50mila persone: "Ho tagliato quel traguardo spinto dal calore della gente, per dimostrare a chi è affetto da emofilia che niente, al giorno d'oggi, è impossibile".

L’emofilia vista non come un limite ma come un’ulteriore battaglia da vincere. Nella carica dei 50mila che domenica 1 novembre hanno corso la Maratona di New York c’era anche Enrico Mazza, bergamasco di 23 anni affetto da emofilia grave. Un ostacolo, quella della malattia, che non ha impedito al runner classe 1992 di tagliare il traguardo del seguitissimo evento a stelle e strisce al quale ha scelto di partecipare spinto anche dalla splendida iniziativa della FedEmo, la Federazione Italiana degli Emofiliaci (leggi QUA). "Il progetto di portare degli atleti emofiliaci italiani alla Maratona di New York è nato due anni fa, quando sono iniziati i primi allenamenti al Centro Marathon di Brescia col dottor Gabriele Rosa – spiega Enrico Mazza, ospite della redazione di Bergamonews -. Io mi sono unito al gruppo solo nel febbraio scorso, appena ho saputo dell’iniziativa, e mi sono fin da subito trovato a meraviglia: gli allenamenti sono stati giorno dopo giorno sempre più duri, ma i risultati si sono visti subito. Ed è stato un grandissimo orgoglio".

Immaginiamo che, essendosi avvicinato a un’iniziativa simile, lei è uno sportivo modello.

"Sì, faccio sport da quando sono bambino: ho fatto nuoto per qualche anno, poi ho iniziato con la pallanuoto. Dopo aver militato anche in Serie A2 con la Pallanuoto Bergamo, ora gioco nel campionato di Promozione a Pavia, dove studio nella facolta di Biotecnologie".

Com’è riuscito a coniugare gli allenamenti in acqua con quelli sulla strada?

"Non è stato facile, anzi. Fino alla metà di giugno, quando la stagione della pallanuoto era nel vivo, la mia settimana si divideva tra lo studio, i tre allenamenti in picina e i due di atletica che avevo introdotto. E’ stato molto pesante, ma se potessi tornare indietro lo rifarei".

Quando ha iniziato a capire che sarebbe davvero potuto arrivare a New York?

"In estate, quando, finiti gli allenamenti di pallanuoto, mi sono concentrato solo sulla corsa: con il gruppo della FedEmo abbiamo macinato tantissimi chilometri e nessuno ha mai mollato niente. Anche quando abbiamo iniziato a introdurre gli allenamenti lunghi, quelli da venti, trenta e quaranta chilometri alla volta".

L’emofilia, durante questo periodo massacrante, come l’ha tenuta a bada?

"Come sempre, seguendo il il ciclo di cure ogni due settimane. Qualcuno pensa che con l’emofilia non si possa svolgere una vita normale, da persone sane. Ma si sbaglia. Forse cinquant’anni fa le cose erano diverse, non c’erano le terapie del giorno d’oggi e questo tipo di malattia poteva segnarti. Ma nel 2015 non è più così: io conduco una vita normalissima, come ogni ragazzo di 23 anni in buona salute".

Alla Maratona di New York ha corso con il suo inseparabile braccialetto arancione. Ci spiega che cos’è?

"Si chiama Sa.Me.Da. Life ed è un braccialetto che include una chiavetta USB che, in caso di incidente, può aiutare il personale medico con le informazioni fondamentali per il primo soccorso, utilizzando uno smatphone o un pc. Perché quando gli emofiliaci subiscono un sinistro ogni secondo può essere decisivo e con questo braccialetto chi interviene può risparmiare tantissimo tempo prezioso. Per ora si tratta di un progetto-guida per emofiliaci ed epilettici, ma visto che le cose sembrano andare molto bene sono convinto che Sa.Me.Da. Life diventerà un punto di riferimento importante per il nostro futuro".

Torniamo alla sua impresa di New York; perché di impresa si può parlare, non è così?

"Sì, direi di sì. Sono stati nove mesi davvero intensi che mi hanno dato molto. Correre a New York, poi, è stato davvero spettacolare: una marea di gente ha accompagnato ogni angolo del percorso, sentire persone che non hai mai visto prima in vita tua incitarti chiamandoti per nome è qualcosa di unico. Sono state loro a spingermi verso il traguardo, anche perché intorno al 22esimo chilometro ho avuto un problema al ginocchio che pensavo mi avrebbe costretto ad abbadnonare la gara".

Invece?

"Invece il calore della gente che non ha mai smesso di incitarmi mi ha convinto ad andare avanti, con calma ma, al tempo stesso, con la convinzione che ce l’avrei fatta comunque. Volevo stare sotto le 4 ore, non ce l’ho fatta ma poco importa. Quello che davvero importa è che ho raggiunto il mio obiettivo e vinto la mia battaglia".

Com’è stato tagliare quel traguardo?

"Un’emozione unica e indescrivibile. All’inizio non mi sono quasi reso conto di quello che avevo fatto; poi, col passare dei minuti e, soprattutto, vedendo la gioia delle altre persone che avevano raggiunto l’arrivo insieme a me (c’era persino chi piangeva dalla felicità, senza nascondersi), ho iniziato a realizzare che ce l’avevo fatta".

E che messaggio ha voluto lanciare con questa sua impresa?

"Ho corso per dimostrare che l’emofilia e lo sport possono, anzi devono convivere".

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