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L'esperto

Caso Yara, il giudice De Cataldo avverte: “Il Dna non è Vangelo”

Il giudice scrittore, sulle pagine dell'Espresso, partendo dal caso dell'omicidio della tredicenne di Brembate Sopra, spiega perché nei processi le prove genetiche vanno sempre trattate con grande cautela. Ecco tutti i suoi dubbi

E' uno dei massimi esperti in Italia di criminalità. Giancarlo De Cataldo, giudice di Corte d'Assise a Roma, nonché scrittore (il suo libro più famoso è Romanzo criminale, dal quale è stato tratto un film e una serie televisiva di grande successo), sulle pagine de L'espresso ha parlato del caso Yara Gambirasio e delle indagini in atto per cercare di risolvere uno dei gialli più intricati degli ultimi anni in Italia. Partendo da una convinzione: "La prova del Dna che gli inquirenti hanno in mano contro Massimo Giuseppe Bossetti non può bastare a risolvere il caso della 13enne di Brembate Sopra".

Dna, un mito da sfatare. Negli ultimi anni stiamo assistendo alla creazione di un vero e proprio mito occidentale: il mito della prova scientifica. Alla scienza chiediamo una “certezza” che non sempre, o forse quasi mai, è di questo mondo. Ci rivolgiamo agli “esperti” con un atteggiamento fideistico che è il riflesso delle nostre grandi paure collettive, prima fra tutte l’inadeguatezza di fronte alla complessità del contemporaneo. Chiediamo loro una parola definitiva, rassicurante: è andata così, e non esistono alternative. Tutto ciò alimenta una mitologia tanto ricorrente quanto pericolosa. “Prova scientifica”, dopo tutto, era anche, a suo tempo, il judicium sanguinis: un sospetto veniva condotto al cospetto del cadavere della sua presunta vittima. Se quello sanguinava, ecco la prova scientifica della colpa. E quei giudici e quei bravi cittadini che accompagnavano il malcapitato al supplizio non erano molto diversi da noi uomini del XXI secolo: impauriti, ansiosi di certezze, soprattutto perfettamente convinti, in buona fede, delle proprie azioni.

Una sentenza della Cassazione spiega. Le cose, purtroppo, non sono così semplici. In una bella sentenza di qualche anno fa, la Cassazione descriveva brillantemente l’accidentato rapporto fra prova scientifica e giudizio, evidenziandone i punti critici: «la mancanza di cultura scientifica dei giudici; gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti; le negoziazioni informali o occulte tra i membri di una comunità scientifica; la complessità e la drammaticità di alcuni grandi eventi e la difficoltà di esaminare i fatti con uno sguardo neutro dal punto di vista dei valori; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche».

Raccolta e analisi del Dna, fasi molto delicate. Nei moderni sistemi, improntati a una sana diffidenza nei confronti della fase investigativa, le modalità di raccolta e analisi della prova, di qualunque prova, sono altrettanto importanti quanto la prova stessa. Prima di affermare che quell’impronta genetica appartiene con certezza a Mister X, occorre sapere come è stata raccolta ed escludere il rischio di contaminazioni accidentali. Per giunta, l’esito stesso dell’analisi non è, talvolta, esente da critiche. Un Dna abbondante e fresco offre maggiori garanzie di uno esiguo e risalente nel tempo. Una traccia esile, per dare risultati, va amplificata con reagenti di laboratorio, in qualche caso con effetti paradossali, come la scomparsa di tracce pure esistenti (tecnicamente definita “allele drop-out”) o la comparsa di tracce inesistenti (“allele drop-in”). E anche quando, superati tutti questi ostacoli, vi sia certezza che la traccia appartiene a Mister X, i problemi non sono finiti.

Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riusciata a scalfire il muro del silenzio Solo in Csi e compagnia cantante il sudore, la saliva o il sangue sul corpetto della vittima sono sicuramente prova della colpevolezza. Nella realtà, l’impronta ci dice che Mister X è entrato in contatto con la vittima. Ma non ci spiega, almeno non ancora, né quando, né come, né perché. Sta all’accusa, secondo le regole processuali, provare, di là da ogni ragionevole dubbio, che l’impronta genetica è stata rilasciata mentre Mister X commetteva quel delitto.

Le linee giuda americane sulla prova scientifica. La questione non dev’essere così trascurabile se gli americani, con il loro consueto pragmatismo, da tempo hanno deciso di affrontarla di petto. Per le decisioni che prevedono il ricorso alla scienza, i giudici di quel Paese si ispirano ai cosiddetti “criteri Daubert”. Perché una prova scientifica sia considerata valida, occorre che risponda a determinati requisiti: l’accettazione da parte della comunità scientifica, la falsificabilità nel senso popperiano, ossia la possibilità di sottoporla a verifiche che inducano risultati difformi da quello originariamente perseguito; l’analisi della percentuale di errore, sul presupposto che non si possa mai parlare di “certezza assoluta” nel campo della prova scientifica; l’esistenza di pubblicazioni peer-reviewed, su stampa scientifica autorevole e la pertinenza al caso in esame. Tutto molto convincente, sul piano teorico. Ma in pratica? Nel 2006 il Congresso degli Stati Uniti incaricò l’Accademia Nazionale delle Scienze (Nas) di condurre uno studio approfondito sullo stato delle cose. 

E non è finita qui. A riprova della centralità del tema della prova scientifica, appena qualche mese fa, il Dipartimento della Giustizia statunitense ha insediato un “board” (questa volta ufficiale), incaricando i migliori scienziati di tracciare le “linee guida” per il corretto utilizzo investigativo e processuale della prova scientifica (con la significativa eccezione della normativa antiterrorismo). A presiedere il comitato il direttore dell’Ostp, un ufficio tecnico istituito negli anni Settanta che riferisce direttamente alla Casa Bianca sull’evoluzione interna e internazionale di scienza e tecnologia. La prova scientifica è, dunque, un affare di Stato. Un settore strategico il cui governo non può essere rimesso esclusivamente né alla comunità scientifica né all’autorità giudiziaria. Anche se al giudice spetta pur sempre l’ultima parola, ad essa si dovrà pervenire tenendo conto di tutte le possibili varianti in gioco. Varianti che, quando c’è di mezzo il destino di un essere umano, è assolutamente doveroso considerare con il massimo scrupolo.

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