di Luca Bassi
Chissà se in quella decina di ultrà ci sono anche dei cassintegrati. Chissà se in quel piccolo gruppo di ragazzotti ci sono anche personaggi che nelle scorse settimane hanno partecipato a qualche sciopero per dire "no" alla chiusura dell’azienda in cui lavoravano. Forse se lo sarà chiesto anche Fabio Gallo mentre comunicava al patron del Brescia Gino Corioni di aver scelto di rinunciare all’incarico di vice allenatore sulla panchina delle Rondinelle. Il motivo? Il passato all’Atalanta e qualche frase "poco simpatica" nei confronti della tifoseria bresciana.
Nel 2013, tempo di aziende che chiudono e di italiani che restano senza un impiego, c’è persino chi deve rinunciare al lavoro nonostante l’accordo già raggiunto da tempo con quella che sarà la persona che gli pagherà lo stipendio ogni mese, c’è addirittura un padre di famiglia a cui viene impedito di andare a guadagnare onestamente i suoi soldi. Certo, quasi sicuramente Gallo non avrà grossi problemi ad arrivare a fine mese, probabilmente troverà un nuovo incarico tra poco, magari meno prestigioso o (cosa che gli auguriamo) molto più importante del ruolo di vice di Marco Giampaolo, ma quello che lascia senza parole è come un gruppo di persone completamente estraneo al club possa dire la sua in maniera tanto perentoria, tanto importante. Così tanto pesante da costringere Gallo, allenatore giovane e carico di entusiasmo, a farsi da parte pochi giorni dopo aver messo la firma sul suo nuovo contratto.
In nome di quali valori gli ultrà bresciani hanno portato all’allontanamento dell’ex bandiera dell’Atalanta? L’orgoglio? La mentalità? L’attaccamento alla maglia? Forse qualcuno si dovrebbe ricordare che il lavoro è un diritto costituzionale e il fatto che nessuno abbia provato a difendere Gallo è grave, molto grave. Perché spesso la violenza non è fatta solo di calci e pugni.
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