• Abbonati
L'anniversario

Padre Turoldo, instancabile disturbatore di coscienze

Oggi ricorrono i 20 anni dalla morte del frate poeta. Il giornalista Giuseppe Zois, che visse con lui una intensa stagione umana e professionale, ricorda il profeta biondo che suscitava nostalgia di Dio.

Oggi ricorrono i 20 anni dalla morte David Maria Turoldo, frate dell’Ordine dei servi di Maria e poeta che con la sua parola cantava la speranza. E lo fece con tutte le sue forze negli ultimi anni, quando lottò contro il cancro che lo avrebbe poi ucciso. Il giornalista Giuseppe Zois, che visse con lo scrittore e poeta una intensa stagione umana e professionale, ricorda il profeta biondo che suscitava nostalgia di Dio. La testimonianza dell’arcivescovo di allora, Clemente Gaddi: “P. Turoldo non poteva più restare a Milano perché il cardinale non lo voleva. Fu bersaglio di molte accuse che non avevano alcun fondamento”.

 

Quando lo conobbi di persona, era appena arrivato all’abbazia di Fontanella. Respirava e faceva respirare il soffio di primavera portato da Papa Giovanni con il Concilio Vaticano II.

Dire Turoldo significava un firmamento di nomi, da Luigi Santucci a Sergio Quinzio, da Alessandro Pronzato a Nazareno Fabbretti a Abramo Levi, da Camillo de Piaz a Ernesto Balducci, Tonino Bello, Giorgio Luzzi… E alcuni di questi volti si incontravano andando da lui o con lui, l’instancabile disturbatore di coscienze.

A Milano, fra le rovine ancora aperte della seconda guerra mondiale e le ferite che la notte della ragione aveva provocato, lui, il frate friulano dei Serviti, predicava in San Carlo e faceva scuocere il risotto ai meneghini con le sue parole di fuoco e di vento. Era un turbine, una forza della natura, un gigante che dalla testa pareva un covone di frumento, biondo come un campo di giugno pronto alla mietitura. Dava fastidio, come succede ai profeti. A questa vocazione non venne mai meno, perché amava scuotere dalla mollezza.

Le gerarchie mal sopportavano questa figura di dissenziente rimasto fedele e l’atteggiamento fu sublimato dall’esortazione di un cardinale: “Fatelo girare, fatelo girare, così non gli si coagula il sangue”. Fu per questo che lo spedirono anche nella fredda e grigia Londra, ma lui non si arrese. Aveva il merito di far pensare e molti non capivano (non volevano) certe sue uscite, che andavano contestualizzate e non scorporate, come qualche benpensante amava fare, scrivendo ai giornali accuse appuntite contro lui.

Purtroppo anche i giornali cominciavano a giocare sull’effetto più che la sostanza, usando immagini colorite per far presa sulla gente, così il più diffuso quotidiano nazionale titolò in prima pagina “il frate scomodo che si batte per il divorzio”. Padre Turoldo era per un cristianesimo adulto, maturo, responsabile. Non inneggiava al divorzio ma voleva matrimoni cristiani più convinti, meno riso e più amore.

In tutto amava andare al cuore del credere, partendo dal suo vissuto, dalla sua infanzia, misera che di più non si può. “Ma nella madia c’era sempre un pugno di farina per il povero che avesse bussato alla porta di nostra madre”. In tempi di apoteosi dell’avere, lui si vantava del “privilegio di essere nati poveri”.

A volte mi chiamava al giornale per un piccolo o più lungo viaggio, che per me diventavano avventure intellettuali e spirituali. Salivo al suo “S. Egidio” e via di mattino, anche presto. Una volta lo portai a un incontro di preti, un ritiro e lui si infervorò: «Non la Prima Messa bisogna celebrare, ma l’ultima. Dobbiamo prepararci ogni giorno a quando diremo: “Andate in pace, la Messa è finita!”».

Come era arrivato a Bergamo, me lo raccontò in un’intervista affettuosa e sincera l’arcivescovo Clemente Gaddi, un altro al quale non faceva difetto la franchezza. “Padre Turoldo non poteva più restare a Milano perché il cardinale non lo voleva. Fu bersaglio di molte accuse che non avevano alcun fondamento. Quando c’era qualcosa, lo chiamavo e lui arrivava da me: ci capivamo subito e bene perché c’era reciproco rispetto. Ero colpito dalla prontezza della sua obbedienza, non una volta soltanto ma come regola”.

Per dire della stima del vescovo verso l’esiliato friulano in terra orobica, Gaddi oltre alla chiesa di S. Egidio aprì anche le colonne del giornale diocesano al frate che rivestì di parole nuove i Salmi.

Tornammo a frequentarci con intensità negli ultimi quattro anni di vita di Padre David, quelli del suo “tempo ultimo”. Si impose di celebrare la speranza nonostante la sentenza che non lasciava scampo: “Ieri all’ora nona mi dissero: il drago è certo, insediato come un re sul trono”. Resistette al cancro al pancreas per quattro anni, testimone straordinario della speranza che non si piega a nessun vento e di attaccamento alla vita.

Morì il 6 febbraio, quattro giorni dopo la Giornata mondiale in difesa della vita.

Non ricordo quante volte con Alessandro Pronzato facemmo rotta su Fontanella, l’ospedale di Lecco e la casa del Pime dove si era stabilito per le terapie, poi, con Luigi Santucci alla Clinica San Pio X a Milano. Sempre più scavato dal male, ma incontenibile, lui raccontava alla nostra società analgesica la sua resistenza, come quando faceva il partigiano con De Piaz. “Senza il dolore non c’è la misura delle cose: avremmo un mondo senza pietà; attraverso il dolore, anche combattendolo come faccio io, si arriva alla felicità. Dopo il buio del Venerdì Santo c’è lo splendore della Pasqua”.

Ecco, Turoldo viveva con noi e ci trasmetteva Dio.

Giuseppe Zois

Iscriviti al nostro canale Whatsapp e rimani aggiornato.
Vuoi leggere BergamoNews senza pubblicità?   Abbonati!
Più informazioni
leggi anche
papa Francesco
L'appello
Caro Papa Francesco, nelle visite ai profeti del ‘900 non tralasci la terra di Giovanni XXIII
commenta

NEWSLETTER

Notizie e approfondimenti quotidiani sulla tua città.

ISCRIVITI